Come predetto alla fine di “Come un gatto in tangenziale” (commedia super-cult diretta nel 2017 da Riccardo Milani, marito della Cortellesi) da Monica detta Monika (borgatara che tra mille difficoltà, provocate soprattutto dalle sorellastre cleptomani Pamela e Sue Ellen, cresce il figlio adolescente Alessio), la sua relazione con Giovanni (intellettuale di sinistra che lavora per l’Unione Europea), cominciata mentre i due provavano a scongiurare il fidanzamento dei rispettivi figli, è presto finita. Tre anni dopo, a causa del “vizietto” delle gemelle, Monica finisce ingiustamente in carcere: si rivolge così a Giovanni, chiedendo che con “un impiccio” la tiri fuori dalla prigione prima che Alessio torni da Londra. Un collega di Giovanni riesce a far sì che Monica sconti la pena lavorando per una parrocchia di periferia: ma la chiesa è accanto allo spazio culturale che Giovanni, nominato garante dell’ex fidanzata, sta allestendo.
Intanto Alessio e Agnese (figlia di Giovanni) si incontrano a Londra; Pamela e Sue Ellen si attirano le ire del criminale da strapazzo “er Piranha”; Luce (ex moglie di Giovanni e madre di Agnese) si infatua di don Davide, prete bergogliano tanto volenteroso e avvenente quanto stupido.
Il primo “Come un gatto in tangenziale”, a soli quattro anni dall’uscita, può essere già considerato un classico della commedia italiana. Troppi i suoi punti di forza: dal duo di protagonisti (i geniali maestri della comicità intelligente Paola Cortellesi e Antonio Albanese), alle trovate formidabili (il percorso a ostacoli che Giovanni affronta nel condominio di Monica, culminante nel campanello “sorcino”; la fauna umana che affolla la spiaggia di Coccia di Morto; le bruttissime canottiere indossate da Monica, con tanto di paillette abbaglianti); dalle caratterizzazioni micidiali (le terrificanti gemelle dai nomi ispirati alla soap-opera “Dallas”, gravemente obese e teledipendenti, che parlano all’unisono e con la medesima cantilena piatta; Luce, profumiera radical chic che per anni ha fatto “battaglie per le periferie” ma è sempre vissuta nell’ovatta) alle scene riuscitissime (i dialoghi tra Giovanni e il carrozziere impiccione; Monica che sconvolge Giovanni raccontando i trascorsi famigliari; la rissa sfiorata tra Monica e la colf di Giovanni; il pranzo in cui fa irruzione Sergio, ex marito di Monica e delinquente per vocazione).
Il sequel, dovendo riproporre gag e caratteri che hanno dato gloria al precedente, è giocoforza in tono minore (così come è successo, questo stesso anno, con l’horror “A Quiet Place II”, che si limita a riproporre la trama di fondo del precedente): non che sia un gran problema, perché la genialità della Cortellesi e di Albanese c’è sempre, e le gag (leggermente meno debordanti rispetto al precedente film) funzionano.
C’è lo stesso difetto del primo film, che al coraggio di dichiarare (per colpa di Giovanni, esasperato dal qualunquismo dei suoi nuovi “amici”) che il pauperismo, la “morale delle mani sporche” e il disprezzo per chi è “arrivato” spesso e volentieri sono le scuse in cui si crogiola chi non ha la minima intenzione di scomodarsi per migliorare alcunché – nemmeno la propria vita, e si rintana dietro la scusa del “tanto va sempre così” e altre frasi fatte per fannulloni e vigliacchi – controbilanciava un’imbarazzante (ma doverosa: i soldi della produzione da qualche parte devono pur arrivare) propaganda europeista; il sequel, all’intelligenza di mostrare che le situazioni difficili si risolvono con progetti strutturati e di lunga visione, non con le bravate dall’effetto immediato (e nocivo) di don Davide, non si spinge sino a distaccarsi da certo buonismo facilone, e per l’appunto lascia che lo stupidissimo “prete bello”, paladino degli occupanti abusivi d’un condominio che difende da quei coglionazzi bigotti e perbenisti che si pagano le bollette lavorando, passi in fondo per personaggio positivo. Si fa del cerchiobottismo: sì, fa bene Giovanni, a progettare piani di recupero pensati per il lungo termine, e ad arrabbiarsi quando i qualunquisti gli dicono che la teoria non serve a nulla; ma lo fa anche don Davide, che fa l’uomo d’azione senza curarsi del fatto che con la sua beneficienza sempliciotta non si combina nulla di serio (e anzi si fanno danni, alle spalle di quegli imbecilli che per sopravvivere faticano).
Alla squadra di interpreti del primo film (Paola Cortellesi: Monica – Antonio Albanese: Giovanni – le gemelle Alessandra e Valentina Giudicessa: Pamela e Sue Ellen – Alice Maselli e Simone De Bianchi: Agnese e Alessio – Sonia Bergamasco: Luce – Claudia Amendola: Sergio; e anche stavolta un cameo di Franca Leosini nel ruolo di se stessa) si aggregano Sarah Felberbaum (Camilla, la manager snob e priva di scrupoli che convive con Giovanni) e Luca Argentero (don Davide). Uno spreco, con a disposizione un’attrice del valore della splendida Sonia Bergamasco, affidarle un personaggio ridotto a macchietta (per il primo film, dove poteva rendere meglio la caricatura che Luce è, era stata candidata al David di Donatello). Sugli scudi le gemelle Giudicessa: quasi immobili, volto e voce completamente inespressivi, catastrofiche, autoironiche.
Un incubo balneare e cinematografico ciascuno, per Monica e Giovanni: simpatico quello di lei, ispirato a “Il settimo sigillo”; da standing ovation quello di lui, con Pamela e Sue Ellen nei panni delle bambine di “Shining”. Sempre meravigliosa la rassegna dei tatuaggi di Sergio.
Il tema centrale – lo scontro irrimediabile tra periferia e centro – è qui ridotto al contrasto tra la coattissima Monica e la “freschetta” Camilla: scontro evitato, dato che le due donne si incontrano appena. Se nel primo film lo scontro era totale (Giovanni e Luce si trovavano circondati dalla realtà delle periferie di cui tanto avevano blaterato), qui si mantiene la distanza: nonostante qualche sortita in territorio nemico, lo Spazio Vivo in cui i fighetti si perdono a cianciare di nuance per le pareti e nomi bizzarri con cui servire il risotto allo zafferano e la parrocchia di San Basilio che accoglie immigrati e mogli seviziate sono due fortini che si guardano in cagnesco, e il prato incolto che li separa è un fossato profondissimo.
Paola Cortellesi, sempre bravissima (e bellissima anche con vestiti trucidi e acconciatura da burina), anche stavolta mette le sue (ottime) doti canore al servizio del film, ancora omaggiando Renato Zero: nel primo episodio cantava, attraversando Roma in motorino, “Ovunque sei” (l’ultima grande canzone del Fiacchini); nel secondo intona, mentre lava il pavimento della chiesa, “Spalle al muro” (piagnisteo rivendicativo con cui Zero arrivò secondo a Sanremo 1991, scritto su misura per lui da Mariella Nava).
Il finale forse allude a un terzo episodio (e a una terza coppia).