Il “presidente del Consiglio” o “premier” del gabinetto gialloverde, Giuseppe Conte, ha compiuto una scoperta di incredibile, sconvolgente importanza, sancita con due frasi da far apprendere a memoria (si usa ancora la memoria?) dai bambini della scuola dell’obbligo e da iscrivere sulle pareti dei caselli ferroviari: “il futuro dell’Africa è il futuro dell’UE”, il “partenariato con l’Africa è pilastro del nostro governo”.
E’ un vero peccato che l’illustre e qualificato giurista pugliese non sia altrettanto ferrato nella conoscenza delle vicende degli scorsi secoli. Basta infatti andare sulla ricostruzione politico – biografica fatta da uno storico di altissima qualità, come l’abruzzese (un altro dei dannati meridionali trogloditi!) Gioacchino Volpe per conoscere le indiscutibili inclinazioni dell’Italia e apprezzare le iniziative e l’impegno di tanti connazionali del XIX secolo per la crescita e l’ammodernamento del Continente, nostro dirimpettaio.
In una relazione svolta nel 1935, individua «una specie di “fatalità africana” dell’Italia, che è poi non altro se non un fatto storico – geografico facilmente spiegabile. Tutte le volte che, nella penisola, si costituisce o ricostituisce una forza politica, con relativo bisogno di conservazione e sviluppo, esso si orienta verso l’Africa [capito, professor Conte!]: basti ricordare Roma, che dovette andare a Cartagine quando non era ancora andata nella valle del Po; ricordare Pisa e Genova, che, appena nate, dovettero, se vollero vivere, metter piede in Sardegna e Corsica, per togliere quelle basi ai pirati del Nord – Africa, e poi spingersi fino all’Africa stessa; ricordare Ruggero di Sicilia che, non ancora Re, dovè prima togliere la Sicilia agli Arabi e poi fare le sue spedizioni contro i regoli di Tunisi e Tripolitania».

Passando alla carrellata biografica breve e forzatamente sintetica, ricorda Giovanni Miani (1810 – 1872), Carlo Piaggia (1827 – 1882), che «combatté i mercanti di schiavi» e Romolo Gessi (1831 – 1881), «il vero eroe della libertà in Africa con la sua «guerra santa senza quartiere ai negrieri», capace di affrancare “diecine di migliaia di schiavi”, di aprire strade, fondare scuole, di educare gli indigeni alla lavorazione del ferro e del colone. La serie continua con Giacomo Messedaglia (1846 – 1893) e Gaetano Casati (1838 – 1902), che, nel morire, «raccomandò agli italiani, come primo loro compito africano, di diffondere fra quelle genti lumi di civiltà».
In un periodo in cui la Chiesa cattolica curava la salute morale, accanto a quella materiale, e non criticava gli sradicamenti, causati dalle infelici condizioni sociali di tanti Stati, creati in nome degli accecanti principii illuministici e poi lasciati allo sbando dalle potenze solo colonialiste. La Chiesa di Roma impediva queste fughe nel vuoto e nell’assurdo, grazie all’opera, un vero e serio apostolato, sempre commovente e spesso culminata nel martirio dei missionari. Tra i tanti della lunghissima nota di ieri e di oggi sono ad assumere, come esempi, il bergamasco Giovanni Beltrami, il bresciano Daniele Comboni, il ligure Giuseppe Sapeto, l’astigiano, poi Venerabile, Guglielmo Massaia.
In chiusura Volpe ritiene tutti questi uomini — si pensi al grandissimo parmense Vittorio Bottego, soldato ed esploratore — cresciuti nell’atmosfera risorgimentale, conclusa con il conseguimento dell’intangibile unità dello Stato, riconosce e rivendica «il grande valore morale» della presenza italiana, una presenza assolutamente priva di «valore economica, di fronte agli accaparratori di terre fertili e di materie prime».
Non è vanteria ma realtà storica che l’ Italia, pratica da molti secoli dell’Africa, ben prima dell’esternazione verbosa di Conte, come tutte le mosse del suo “governo”, inconcludente e controproducente, non sia stata mai presente con i connotati della prepotenza e del depauperamento tipici di altre nazioni.