Galli della Loggia con l’editoriale La legge elettorale. Dare un governo al Paese, sul quale si è espresso anche Il Foglio apre un inutile quanto tardivo processo alla Carta costituzionale, costruita da una maggioranza clerico-socialcomunista, che si fingeva – senza esserlo – democratica nel nome e nel segno di un retorico quanto acrimonioso antifascismo, e puntava nella componente della sinistra PSI – PCI , all’edificazione di una società sovietizzata con la creazione delle Regioni.
Il rimprovero agli eccessivi poteri concessi ai presidenti della Repubblica è innanzitutto antistorico, perché mai i padri costituenti si sognarono di dare vita ad una figura potenzialmente dittatoriale ed egemonica.
Nella lunga serie dei capi dello Stato non sono mancati uomini, da Gronchi a Cossiga, da “santo” Pertini a Napolitano, capaci di prevaricare le Camere con velleità esibizionistiche. Essi sono però in netta minoranza rispetto agli altri, limitatisi, come l’attuale e come Ciampi, a funzioni meramente notarili.
Ugualmente è oltremodo discutibile la lamentela sul sottodimensionamento dei presidenti del Consiglio, dipinti quasi come servitorelli degli inquilini del Quirinale.
Che il discorso sia astratto, teorico, ipotesi scolastica, è dimostrato dalla definizione offerta sul governo, che può “vantare dalla sua, bisogna credere, quella bazzecola, che è l’investitura del voto popolare”. A Galli è sfuggito il particolare, il dettaglio dei 4 esecutivi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, imposti senza il minimo imprimatur democratico da Napolitano (ex) comunista e da Mattarella cattolico di sinistra.
Non è affatto fondata la tesi di un’ “intrinseca debolezza della figura del presidente del Consiglio”, visto che negli anni, nei regolamenti parlamentari, con l’obiettivo di sostenere l’azione dei governi, è stata ampliata la possibilità del ricorso al “voto” di fiducia”, garanzia di sopravvivenza e nel contempo giustificazione per il soffocamento dei dibattiti.
Galli, di fronte a questo quadro fragile ed incerto, si pone come fautore di una legge elettorale, tale da assicurare al presidente proponente “una maggioranza parlamentare” autosufficiente e allineata o meglio prona. I rimedi proposti sono un proporzionale con soglia di sbarramento significativa e premi di maggioranza solo alla lista oppure il collegio uninominale a doppio turno sul modello francese.
Un osservatore onesto e franco non li può che considerare ardui da conseguire (il premio di maggioranza non può scattare al raggiungimento del 40%, troppo esiguo) e principalmente pieni di incognite (chi impedisce la formazione di cartelli delle formazioni minori, capaci di superare il limite imposto, intenzionati a sciogliersi all’indomani del risultato?). E’ indispensabile poi fissare una percentuale di affluenza alle urne superiore al 60% – 65% così da impedire la ridicolaggine registrata in Francia con Macron eletto con il 32% del 50% dei francesi, cioè con il 16% degli aventi diritto.
La chiusura mostra ancora una volta di più proposte equivoche e non poco pericolose sul piano democratico. Per Galli infatti “le elezioni dovrebbero servire a far decidere agli elettori non già da chi vogliono essere rappresentati, bensì soprattutto da chi vogliono essere governati. E dunque dovrebbero servire a eleggere e a mandare a casa i governi”. Questi sarebbero in grado di dettare norme precise, esplicite, di facile applicabilità di garanzia contro l’insorgere di napoleonismi e di caudillismi sudamericani o vetero comunisti?