Scena di guerriglia urbana, “balcanizzazione” della popolazione, improvvide e sommarie scelte politiche, conflitti tra i vari organi dello stato, referendum farsa e dichiarazione di indipendenza priva di qualsiasi riconoscimento democratico ed internazionale. Shakerate bene tutti gli elementi ed otterrete la “crema catalana” confezionata ad hoc dalla scarsa lungimiranza dei vari governi centrali succedutisi e dalla furia ideologica dei politici indipendentisti catalani.
Dal Franchismo alla Costituzione, fino ai giorni nostri
Morto Franco, il periodo di transizione coincide con l’approvazione plebiscitaria della Costituzione, votata in massa anche più di 2 milioni di catalani (oltre il 91% della popolazione) e basata su princìpi liberali e di forte decentramento e tutela delle varie sensibilità socio-linguistiche spagnole.
Le pulsioni indipendentiste vissute prima della guerra e “soffocate” dal regime di Franco, non costituiscono una minaccia alla convivenza civile dei catalani, orgogliosamente divisi tra unionisti e fautori di maggiori autonomie fiscali e politiche. Lo statuto autonomo approvato l’anno successivo contempla il recupero della lingua catalana equiparandola allo spagnolo e concede ampi spazi di manovra nel campo dell’educazione e della creazione di media autonomi (TV3) e di una polizia regionale (Mossos d’Esquadra).
Nell’ultimo decennio, però, la situazione degenera. Artur Mas, il piccolo borghese inviso tanto a Madrid quanto ai membri dell’ala di sinistra della coalizione indipendentista e intransigente che fa capo a Esquerra Repubblicana (il partito, per intenderci, dell’insurrezionalista presidente Companys fucilato durante la guerra civile). Mas convoca un referendum consultivo farsa (pagato da tutti i contribuenti catalani), viene costretto a dimettersi e termina dopo neanche due anni il suo mandato. Al suo posto, dopo il trionfo di “Junts pel Sì”, la piattaforma indipendentista coalizzatasi nelle ultime elezioni regionali per preparare il terreno verso l’eldorado catalano, arriva Carles Puigdemont.
La ley del referendum e la risposta del governo
La resa dei conti arriva con la forzatura procedurale del 6 settembre: il parlamento catalano vara la ley de referendum, una norma vincolante che in caso di esito positivo della consultazione prevista per il 1 di ottobre (priva di quorum, osservatori internazionali e le minime garanzie democratiche) autorizzerebbe la maggioranza di Puigdemont ad avviare il processo di indipendenza in modo unilaterale. Senza una maggioranza qualificata e la minima possibilità per le opposizioni di introdurre emendamenti, gli indipendentisti cercano la rottura con Madrid e con l’intera nazione.
Mariano Rajoy, primo ministro traballante del Partido Popular, ritiene l’atto politico “inaccettabile e pericoloso per la democrazia e la libertà del popolo catalano”. La Fiscalia e il Tribunale supremo catalano scendono in campo, avviando una lotta contro il tempo e contro gli autori di questo “attentato alla costituzione e all’unità della nazione”.
Vengono perquisite le sedi dei movimenti indipendentisti e introdotte sanzione pecuniarie per i fautori della grottesca campagna elettorale. Il clima si surriscalda e lo Stato alza la voce, inviando a Madrid la polizia nazionale e la Guardia Civil, non fidandosi (e a ragione) dei Mossos d’Esquadra, la polizia “politica” catalana, emanazione diretta del duo Trapero (comandante asservito alla lobby catalana)-Puigdemont.
L’alba del giorno dopo e le rivendicazioni storiche tra mito e realtà
Il 1 Ottobre il referendum si celebra in un clima surreale, con le scuole concesse dalla Generalitat per “motivi ricreativi” e la polizia nazionale impegnata nell’impedire un simulacro di democrazia. Il voto è “libero e fantasioso”: alcune persone, infatti, si recano in più seggi e votano senza una reale identificazione. Alla resistenza passiva di alcuni segmenti del popolo catalano, fa da contraltare (dopo decenni di immobilismo) la reazione dura delle istituzioni centrali. Le tensioni accumulate aumentano dopo la decisione del Barcellona FC di disputare la sua partita a porte chiuse contro il Las Palmas (ma non di perderla e vedersi sottratto sei punti) per solidarietà nei confronti del popolo catalano e contro le “violenze della polizia”. In serata, il presidente Puigdemont annuncia l’esito del referendum: oltre due milioni di catalani hanno detto sì alla nuova Repubblica Catalana, tra brogli e cariche poliziesche.
Ma la questione resta arroventata e affonda le sue radici nelle guerre dinastiche del 18° secolo (che non videro mai una Catalogna indipendente) e secondo i catalanisti duri e puri nelle successive “repressioni” spagnole”, culminate con l’avvento al potere di Primo de Rivera, la soppressione dello statuto autonomo di Catalogna, l’assassinio del golpista Companys e la dittatura franchista.
Passa, però, del tutto inosservato, invece, come negli ultimi 40 anni la regione sia stata governata ininterrottamente da politici di tendenza secessionista, da Pujol (il padrino catalano) a Puigdemont, passando per Mas. Tutti indagati per appropriazione indebita di denaro pubblico, disobbedienza ed esportazione di capitali nel paradiso fiscale di Andorra, pronta nel 2018 ad abbandonare il segreto bancario su tutti i suoi clienti…
L’Europa si schiera, Puigdemont cerca il dialogo e il popolo si divide
In attesa di nuovi sviluppi, la situazione appare una matassa intricata da sbrogliare. Sotterrata l’ascia di guerra, il presidente catalano ora ripudia l’ipotesi di una frattura traumatica con la Spagna, richiamando al dialogo e alla responsabilità. L’Europa ha definito la questione un fatto “tutto interno” al paese iberico, negando – al tempo stesso – qualsiasi forma di riconoscimento legale all’indipendenza unilaterale.
La Catalogna balcanizzata, divisa e umiliata si lecca le ferite. La “fractura social” tra i vari strati della popolazione resterà per le future generazioni il lascito peggiore di una classe dirigente locale miope ed accecata dal furore ideologico. La silenziosa maggioranza catalana fedele al re e alle istituzioni spagnole è finalmente scesa in piazza contro l’imperante e minoritaria arroganza secessionista, sempre più manovrata – nei suoi strati più malleabili – dalle grandi lobbies straniere e da pulsioni irrazionali di odio e rancore verso i propri fratelli. In un clima di strisciante e latente guerra civile alimentata da sentimenti revanscisti e menzogne storiche.