Assai di frequente è capitato di rilevare la definizione del fascismo (“parentesi della storia”), dettata da Croce e smentita oggi più di ieri dalla banalità e dall’ovvietà di ceti interventi “cartacei” pseudo storici, ripetitivi e narcisistici sulla brutalità, sulla rozzezza del regime, espressi in parallelo all’estasiata ammirazione per la Cina e il suo dittatore, cui l’Europa intera si è prostrata.
Su Croce è tornato sul Corriere della Sera con una recensione ad un volume, pubblicato in Canada, relativo al periodo della nascita della Repubblica, Sergio Romano, un altro dei tre “papi” laici della politica italiana, più giovane di Eugenio Scalfari e più anziano di Paolo Mieli.
Il titolo della nota (“Quando Croce riannodò i fili dell’Italia ferita e divisa in due”) è del tutto sballato, dal momento che il discorso citato, riportato, tra l’altro in maniera imprecisa, (in realtà quelli esemplari sono due) è tutt’altro che ossequiente ma critico e battagliero. Croce usa termini, da cui traspaiono, netti ed indiscutibili, amor di patria, orgoglio nazionale e senso dello Stato e non esita nel sottolineare negativamente connivenze, errori ed assoggettamenti dei partiti maggiori alle potenze vincitrici, tanto aspre, severe e discriminatorie verso l’Italia.

Sono due discorsi pronunziati all’Assemblea costituente, l’11 marzo e il 24 luglio 1947, che qualcuno, fermo all’abbecedario della politica, si affretterebbe a definire “sovranisti”.
Nel primo, nel corso del dibattito sul disegno della Costituzione, il “letterato” abruzzese critica il sistema collettiva delle norme, costruite “in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti” dai 3 partiti (DC, PCI e PSI) egemoni.
Nonostante l’ex diplomatico vicentino, che a luglio raggiungerà i 90 anni, si limiti a definire i rapporti tra Croce e Togliatti “non cordiali”, il primo, nel corso dell’intervento, non lesina critiche, rammentando che il secondo l’aveva “ più volte fatto segno dei suoi motti satirici”.
E’ ancora Croce ad osservare con severità e con preoccupazione che “l’avviamento che ora si è preso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e inisperimentate istituzioni regionali, è pauroso”.
Così anticipa la dura e perentoria ostilità al “diktat”, “che tanto ci offende e ci ribella impostoci dalle tre potenze nel cosiddetto trattato di pace, al quale l’Italia cobelligerante non ha partecipato e non vi ha veduto accolta nessuna delle richieste necessarie alla sua vita”.
In una delle sedute finali del lungo dibattito del giugno – luglio, chiuso l’ultimo del mese con l’approvazione (262 favorevoli, 68 contrari e 80 astenuti), l’abruzzese – napoletano, ma sempre orgogliosamente e integralmente patriota, confessa sentimenti e stati d’animo, da presentare e da illustrate negli istituti scolastici, se ancora funzionassero.
Sono da raccogliere, per brevità, i passaggi emblematici. Croce riprova “il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi”.
Si apre poi ad una visione, che, pur espressa oltre 70 anni or sono, ha del vivo e dell’attuale ed ha politicamente dell’inarrivabile. “Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo sotto questo secondo aspetto dei rapporti tra i popoli, accettarlo, né come italiani curanti dell’onore della loro Patria, né come europei: due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea”.
Sono concetti base e fondamento per una revisione delle responsabilità delle grandi nazioni europee e occidentali sugli immani problemi irrisolti, quali il colonialismo ufficiale ed ufficioso e l’acquiescenza al dilagante capitalismo di Stato cinese.
E’ arduo, anzi impossibile respingere Croce nella sua opposizione non solo sul tema di allora ma sugli effetti e sulle conseguenze di quel malaccorto e irresponsabile asservimento. “Non si può costringere il popolo italiano che è bella una cosa che esso sente come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile ad un popolo come ad un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela”.
IERI ERAVAMO UN POPOLO BLASONATO E RIVERITO SUSCITANDO INVIDIA NELLE GRANDI POTENZE EUROPEE
OGGI SIAMO GLI STRACCIONI CON IL CAPPELLO ROVESCIATO IN MANO
Vae victis è la sorte comune degli sconfitti ma noi l’abbiamo peggiorata mendicando uno strapuntino ( negato ) tra i vincitori…