1979: Mike Milo, gloria del rodeo texano fino a quando un cavallo non gli ha fracassato la schiena, è un cowboy stracolmo di rimpianti, legato da un debito di gratitudine a Howard, ranchero e uomo d’affari non proprio limpidissimo. Questi lo incarica di andare in Messico e rintracciare il figlio adolescente, Rafael detto Rafo, prigioniero nella gabbia dorata della madre Leta, narcotrafficante che trascorre tutto il santo giorno a sollazzarsi con alcool e guardie del corpo. Pur minacciato da Leta, Mike riesce a conquistare la fiducia di Rafo, che combatte la tristezza con due ossessioni: diventare un grande “macho”, e i combattimenti fra polli in cui ingaggia il suo campione, un gallo rosso di nome, per l’appunto, Macho. Durante il loro viaggio (più grottesco che avventuroso) Rafo scoprirà che essere uomo è ben diverso da essere “macho”, Mike ritroverà la felicità del curare animali, e soprattutto incontreranno Marta, oste d’immensa gentilezza, e le sue graziose nipoti.
Dall’eponimo romanzo (1975, in occasione dell’uscita del film pubblicato in Italia da Libreria Pienogiorno) del drammaturgo e sceneggiatore N. Richard Nash, alla cui trasposizione cinematografica Eastwood si era già interessato nel 1988, progettando di dirigere il film con protagonista Robert Mitchum (che incontro tra grandi cavalieri sarebbe stato!). Seguirono due vani tentativi della Warner Bros: un set con Roy Scheider fu interrotto dopo pochi ciak, e un progetto con Arnold Schwarzenegger non giunse sul set già approntato. La sceneggiatura scritta da Nash è stata riveduta da Nick Schenk (per Eastwood, già scrittore di “Gran Torino” e “The Mule”). Macho è stato interpretato da undici galli, ognuno appellato con nomi di personaggi eastwoodiani, da Blondie (“Biondo”, come Eli Wallach si riferisce all’uomo senza nome dei film di Leone) a Walt Kowalski (il metalmeccanico reduce dalla Corea di “Gran Torino”).
Un’ora e quaranta: una rarità, per un regista che quasi sempre supera abbondantemente le due ore; riprese nel New Mexico in meno d’un mese e mezzo (tra i primi di novembre e metà dicembre del 2020) – un’era geologica per Eastwood, che ha girato film assai più lunghi in un mese scarso; costato 33 milioni di dollari (in linea con la parsimonia della Malpaso, una miseria in confronto alla media hollywoodiana), uscito nei cinema statunitensi a settembre e tra novembre e dicembre del resto del mondo, ne ha finora incassati 14 scarsi: la distribuzione online (corsia ormai preferenziale per il cinema “mainstream”) non sta salvando “Cry Macho” dal diventare uno dei più gravi fiaschi della produzione eastwoodiana. Negativa anche la risposta della maggior parte della critica USA.
Se il primo punto è un problema (perché i mancati guadagni sono un problema di sopravvivenza per il cinema di qualità), del secondo chi se ne strafrega. “Cry Macho” ha tanti difetti, tutti in bella evidenza: e anche di questo, chi se ne strafrega. È un remake in chiave minore di “The Mule” (la magione dei narcotrafficanti, le messicane che ci provano col vecchietto, i viaggi al confine tra Stati Uniti e Messico, i controlli stradali), che invece è uno dei punti più alti della filmografia del Nostro; è ripetitivo (appena i due protagonisti salgono in automobile, trovano un’insidia), puerile (gli interventi provvidenziali del gallinaccio sono da cartone animato), melenso, recitato approssimativamente (e Clint, in una delle sue interpretazioni più stentate, è comunque il solo attore esperto – a parte la bellona Fernanda Urrejola, protagonista d’alcuni telefilm sui narcos tanto di moda), stereotipato. Mike Milo è l’ennesimo personaggio eastwoodiano identico ai precedenti: la solita pellaccia ricoperta di cicatrici, un altro fantasma che trascina con sé un fardello di ricordi tristi. Tutto ciò non rappresenta affatto un problema. È ben altro, quel che importa: “Cry Macho” è una fiaba, è un’avventura, è un viaggio, è un sogno. Dietro quella collina, dice Mike a Rafo, c’è la libertà: eppure l’avevano trovata chilometri prima, per il solo fatto di essersi messi in marcia nonostante la proibizione di farlo.

L’incanto di “Cry Macho” è la stessa magia di Clint Eastwood (con la sua voce sempre più sussurrata – Michele Kalamera, il doppiatore italiano di Clint, è bravissimo, ma i film di Eastwood vanno visti anche in lingua originale; e con i suoi occhi quasi bianchi, l’andatura sghemba, i capelli svolazzanti dopo essere stati liberati dal cappello da cowboy, la solita gestualità di quelle meravigliose mani nodose: per colpa della cifosi non è più il marcantonio di quasi due metri che interpretava l’ispettore Callahan, eppure ogni volta che compare sullo schermo, riempie il cinema): magia che si trova, tutta, nelle bellissime scene con Mike e Rafo alla tavola di Marta e delle sue ragazze. Scene in cui non succede nulla, a parte Rafo che stuzzica Mike sulla simpatia tra questi e Marta, e Mike che comunica assieme alla bambina muta con il linguaggio dei segni e con i sorrisi: eppure, tutte giocate su scambi di gesti e di espressioni, sono piccole scene meravigliose. Per ritrovare una grazia simile si deve tornare al 1976, e a un altro western non-convenzionale dello stesso Eastwood, “The Outlaw Josey Wales” (in Italia rinominato “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, nonostante il protagonista giunga dal Missouri; un film interamente composto da sequenze bellissime, su tutte il patto con Orso Bruno), e alle scene della nuova famiglia di Josey.
Durante la post-produzione del film, un allarme per incendio fu lanciato negli studi di Hollywood. Eastwood, che stava supervisionando il montaggio di “Cry Macho”, rifiutò di lasciare lo studio, dicendo di avere del lavoro da finire.
Chi se ne strafrega dei difetti, delle approssimazioni, degli stereotipi di “Cry Macho”: è un’opera della Piccola Quercia di Carmel, il californiano dagli occhi di ghiaccio che a un allarme risponde: ho del lavoro da finire, il fuoco può attendere.