Veneto e Lazio insieme registrano un numero di pernottamenti di turisti superiore a quello della Germania, la Toscana più del Belgio, il Trentino Alto Adige più della Repubblica Ceca. La provincia di Venezia, da sola, ha avuto più pernottamenti di turisti stranieri dell’Irlanda e quella di Roma più di Cipro. E ancora, in Italia arrivano 43 milioni di visitatori da tutto il mondo e l’introito valutario è di circa trenta miliardi. Numeri, cifre e dati importanti, soprattutto a fronte della caduta della domanda interna (una flessione nel 2011 del 5, 1 per cento) e della pesante crisi internazionale in atto.
Eppure l’industria turistica nazionale assomiglia sempre più a un gigante affetto da nanismo. È la diagnosi — magari impietosa ma veritiera — tracciata dagli operatori negli incontri che accompagnano la Borsa Internazionale del Turismo in corso in questi giorni a Milano, negli spazi della grande fiera di Rho.
Nei corridoi, negli stand della grande manifestazione si avverte in pieno la sofferenza (e l’insofferenza) di un comparto strategico del sistema Italia che, sebbene rappresenti il 13 per cento del Pil e occupi oltre due milioni di persone, rimane incredibilmente trascurato quando non penalizzato politiche fiscali (un esempio per tutti, i balzelli sulla nautica) miopi o obsolete.
Certo, il settore, grazie al dinamismo e la caparbietà degli operatori, mantiene la sua competitività con punte d’eccellenza e un’offerta variegata (mari, monti, città d’arte, i circuiti enogastronomici), ma in tempi di turismo globalizzato tutto ciò non basta, non può bastare.
Accanto ai gravi deficit infrastrutturali italiani (porti, aeroporti, autostrade, ferrovie), la mancanza di una strategia promozionale unitaria ed efficace (si pensi solo all’affollarsi disordinato quanto anti economico d’iniziative pubblicitarie sponsorizzate dai vari assessorati regionali), la ridotta azione in campo formativo e la ritirata di Alitalia dalle rotte intercontinentali, il settore paga antichi ritardi strutturali: tra tutti le insufficienti dimensioni aziendali (familiari o poco più) e l’assenza di protagonisti di statura internazionale. Il mesto epilogo delle catene ATA e Unahotels, la cessione da parte degli Agnelli a un fondo private equity di Alpitour (il primo operatore italiano), il fallimento di Parmatour, del Ventaglio e la crisi di Valtour, confermano le preoccupazioni.
Come chiedono con forza gli operatori, oggi più che mai la difesa e il rilancio del turismo necessita di una politica nazionale, coraggiosa e di ampio respiro. Riprendendo e sviluppando le intuizioni dell’ex ministro Brambilla — incomplete ma non inutili — è urgente razionalizzare gli sforzi, concentrare le risorse delle regioni (un totale di 330 miliardi, troppo spesso affidati ad assessori velleitari o/e incompetenti) e iniziare ad investire oculatamente nella promozione internazionale (e in particolare sui mercati emergenti) delle bellezze del patrio Stivale. Con intelligenza e professionalità. Come ricorda il naufragio della Costa Concordia — una tragedia umana e un disastro economico per l’intero segmento crocieristico —, basta un vile, un’incompetente, insomma uno Schettino qualsiasi, a devastare un comparto vincente e offuscare l’immagine dell’Italia intera. Da qui il bisogno di una regia, da qui la centralità dell’Enit e l’importanza strategica di un Ministero del turismo solido e funzionale. Ma non solo.
Il settore ha immediato bisogno di nuove regole fiscali, in primis sulla tassa di soggiorno. Come sottolinea Renzo Iorio, presidente di Federturismo, si deve arrivare quanto prima «a una omogeneità delle aliquote IVA a livello europea. Le nostre aliquote salgono mentre quelle di Francia e Spagna, i nostri diretti concorrenti, restano a livelli molto più bassi: la competitività dell’offerta è ulteriormente penalizzata. Serve ragionevolezza». E poi i trasporti, l’asse centrale su cui muovere il sistema Italia, ancora oggi insufficienti, inadeguati. Siamo il primo Paese al mondo per numero di siti patrimonio mondiale dell’Umanità dell’Unesco, ma non abbiamo una rete di ferrovie turistiche e i pochi esperimenti — in Toscana o in Lombardia — languono nel disinteresse di Moretti. Intanto, in Svizzera, in Austria, in Francia si riaprono rami “secchi” che creano interesse e occupazione. Un esempio tra tanti, ma significativo.
Come si fa ad immaginare, come fa una persona per bene come il neo ministro Piero Gnudi, una crescita dei flussi che porterà «il contributo del turismo al Pil dall’attuale 13 per cento al 18 nel 2020, con circa 1,6 milioni di nuovi posti di lavoro», senza scelte radicali, interventi forti e decisivi? Interrogativi, domande a cui solo la politica, quella vera, può dare risposte e prospettive.