I “liberal” italiani e quelli statunitensi hanno due tratti fondamentali in comune: l’arroganza e la ferocia. Riguardo la ferocia, si potrebbero riempire enormi volumi. Uno degli ultimi episodi è stato il linciaggio di Andrea Bocelli, condannato al pubblico ludibrio non tanto per aver dichiarato un vago e confuso negazionismo circa l’emergenza del Covid, quanto per la sua vicinanza a Matteo Salvini (e già da anni non faceva mistero d’avere simpatie di centrodestra). Si dice che in Italia il centrodestra sia maggioritario… può darsi, resta il fatto che certe prese di posizione restano tabù condannati alla quasi unanimità. Nemmeno un personaggio popolare come Bocelli (che tale almeno lo era fino a settimana scorsa) se le può permettere.
Persino peggio è andata a J.K. Rowling: una delle scrittrici più amate al mondo, finché non ha difeso Maya Forstater, rea d’aver dichiarato che “il sesso biologico è un dato reale” e che i transessuali non sono donne (non autentiche, almeno).
L’arroganza “liberal” si manifesta con un’autoreferenzialità che ha del compulsivo. In Italia, con l’arrogarsi patenti di supremazia culturale: e se una volta la sinistra faceva davvero cultura d’alto livello, è impossibile trovare qualcosa nell’attuale, feroce produzione d’una “intellighentsia” che va dai pamphlet narcisisti di Scalfari, alle “inesattezze” (per usare un eufemismo) di Canfora, dalle boiate di Augias alle isterie della Murgia. Tutto piatto, stereotipato, banale. Eppure, complice la scarsissima reazione da destra (o almeno, da parte della destra partitica), in forza di questa arroganza la cultura ufficiale sembra monopolio di una sinistra che non fa cultura, ma dice di farla.
Negli Stati Uniti, all’arroganza del “culturame” si affianca quella della “bontà”. Da David Letterman in poi, i “dem” (si tenga valida la distinzione democratici-repubblicani, dato che parlare di sinistra vs. destra negli USA è quantomeno fallace) si vantano di essere non solo, come i loro sodali italiani ed europei, più colti dei repubblicani – argomento sul quale insistono; ma lo accompagnano con la pretesa di essere più buoni e bravi: insomma, “kind”.
“Be kind” è il motto della trasmissione condotta da Ellen DeGeneres, titolare d’un talk show televisivo a suo nome, dal 2003, sulla NBC. Bionda minuta, faccino tondo con denti da coniglietto, diventata celebre soprattutto per due relazioni lesbiche (con l’attrice, dal successo effimero, Anne Eche e con l’ex modella Portia De Rossi, tuttora sua compagna), collezionista d’orologi di lusso da uomo, democratica. La DeGeneres è da anni una delle più potenti portavoci della prepotenza “dem”: una delle “opinion-leader” che tuonano contro chi non si accodi al “pensiero unico” dello star-system americano: i “buoni” col santino di Obama, impegnati in una guerra contro i “cattivi” trumpiani, o repubblicani, o reazionari o chissà che altro.
Ellen DeGeneres è l’allieva ideale di David Letterman, l’anchorman che ha dedicato la carriera a dare dell’idiota, analfabeta, gretto e disonesto chiunque non sia un “liberal” con laurea in università prestigiosa, appartamento di lusso e voto fisso per i democratici. Il livore di Letterman nei confronti di chi abbia una mentalità diversa dalla sua, tradotto nella pretesa di essere la sola persona di sani principi che abbia mai onorato il cosmo della sua presenza, è stato punito con la scoperta dei suoi favoritismi in redazione, dettati non dai meriti dei “sottoposti”, ma dalle preferenze sessuali del giornalista. Che, per la prima volta nella sua carriera e forse nella sua vita, ha ammesso di essere fallibile – salvo poi imitare Michael Stipe, il lagnoso leader della band REM nel farsi crescere una barba da santone e ritirarsi a vita privata, schifato da tutta la gentaccia che non può vivere a Manhattan e lanciando ogni tanto strali contro i deficienti che non votano per i democratici.
Contro le stesse pretese di superiorità si sono scontrati la DeGeneres e il suo motto: “be kind”, “sii gentile”. Pur annunciando l’avvento d’un mondo di gentilezza, nel cui pantheon il suo nome, assieme a quelli di Meryl Streep, Emma Watson, Oprah Winfrey e Michelle Obama sono scolpiti in caratteri dorati, un eden popolato da fighetti “snowflake” e in cui i “social justice warrior” vigilino sull’osservanza d’un pensiero unico fatto di meticciato, teorie LGBT, droghe più o meno leggere e qualche arcobalenoso bombardamento sul Medio Oriente, la DeGeneres stessa non è un esempio – se non a proclami – di gentilezza. Chi semina vento raccoglie tempesta, e a lungo andare la tirannia sui dipendenti ha lasciato tracce: minacce, prepotenze, insulti, pedinamenti. Persino alcune delle “star” ospiti hanno testimoniato: dietro le quinte d’un talk show fatto di proclami buonisti e sorrisoni, l’atmosfera era greve di tensione.
Si spera, con questo articolo, di non far passare un messaggio qualunquista: il modo di dire “predica bene e razzola male” è adatto al tema, ma da frasi come “sono tutti uguali”, “tutti ipocriti”, “boccaccia mia statte zitta” si spera di tenersi lontani. I puri, persino gli eroi esistono: soltanto, non si proclamano tali. La differenza con la DeGeneres, Letterman e altri ciarlatani del pensiero unico, è che questi fanno come la rana di Fedro: che per imitare il bue si gonfia fino a scoppiare.