Con un interessante ma stranamente contraddittorio articolo sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia si occupa della crescita e delle prospettive politiche di FDI mettendo il dito su una piaga che molti di noi hanno già individuato da tempo. Meno inclini di altri al trionfalismo indotto dai dati virtuali dei sondaggi e poco interessati alle loro ricadute in termini di vantaggi concreti, da tempo sosteniamo che non basta raccogliere voti, ma bisogna anche saperli utilizzare, possibilmente per qualcosa di più importante che semplicemente galleggiare.
Servirebbe un disegno di ampio respiro, idee e strategie per cambiare realmente il paese e sottrarlo all’ipoteca opprimente della sinistra – non solo politica ma anche culturale, giudiziaria, burocratica, persino economica – che da anni lo sta soffocando senza mai trovare un’opposizione capace di fermarla. Servirebbero quindi idee e persone, quadri e programmi, elaborazioni culturali e riferimenti sociali che possano trasformare una possibile vittoria elettorale in una duratura ed autorevole vittoria politica e non nel solito giro di giostra dalla quale si scende frignando quando si ferma la musica. Convincere più che vincere, usando l’abusato aforisma di Miguel de Unamuno.
Nella prima parte del suo articolo, quella utile, Galli della Loggia si occupa proprio di questo, rilevando come il vero problema della Meloni e dei fratelli sia “impiegare il tempo da qui alle prossime elezioni sia per immaginare cose da fare e capire come farle, per studiare problemi e delinearne le soluzioni […] se non ci si accontenta di stare al governo ma si vuole governare allora bisogna essere o cercare di essere parte di una classe dirigente. Se si vuole prendere in mano il Paese e portarlo verso un qualsiasi traguardo importante allora non basta una maggioranza parlamentare, ci vuole qualcosa di molto di più”.
Fatta la tara al pressante invito dell’autorevole editorialista ad assimilarsi ed omologarsi ai salotti buoni ed ai poteri forti, cioè l’ennesima invocazione della destra che piace alla gente che piace, la critica colpisce nel segno. Infervorata nelle chiacchiere da talk show e social network, inebriata dai numeri virtuali dei sondaggi, incurante degli – se non proprio infastidita dagli – appelli dell’area culturale di riferimento sempre trattata con sufficienza, quando non con aperto disprezzo, la destra politica non sembra attualmente in grado di elaborare una seria proposta politica sui temi rilevanti per il futuro del paese: l’economia (dove non va oltre bizzarre e dilettantesche rimasticazioni di slogan liberisti) la scuola (non pervenuta), la politica industriale (quasi nulla a parte agli slogan di giornata), le politiche sociali (indecifrabili) e così via.
Non aiuta la modesta preparazione di quadri e personale politico, destinata a peggiorare per l’effetto bandwagon indotto dalla crescita (teorica) dei consensi che ha già portato, e porterà ancora di più in futuro, all’arruolamento di legioni di questuanti in cerca di sistemazione. Senza dimenticare che solo marginalmente si è riusciti ad allargare il perimetro reale del consenso: negli ultimi anni i voti si sono più che altro travasati all’interno del centrodestra da un contenitore all’altro.
Un passaggio, quello dalla politica virtuale dei social e dei sondaggi alla politica reale dei fatti, che si sta dimostrando molto più problematico del previsto come dimostra la difficoltà di trovare candidati adeguati per le grandi e medie città con il rischio di una pesante sconfitta politica in un momento favorevole. Il rischio, cioè, di gettare al vento l’ennesima occasione storica.
Una situazione efficacemente sintetizzata da Augusto Grandi: “la sinistra si prepara a governare anche perdendo, la destra rinuncia a governare pur vincendo”, laddove è difficile capire se sia nato prima l’uovo, cioè il rifiuto da parte di personalità autorevoli ad accostarsi a questa destra, o la gallina, cioè l’incapacità di questa destra, magari addirittura per scelta consapevole, di dialogare con le stesse per privilegiare contingenti interessi di bottega. All’atto pratico il risultato resta comunque l’assenza di una classe dirigente adeguata e preparata in grado di proporsi come alternativa credibile al collaudato apparato di potere della sinistra.

Come ha rilevato Marco Tarchi, l’ostilità nei confronti della destra, spesso degenerata in demonizzazione ed emarginazione, è anche (se non soprattutto) colpa della destra stessa incapace “di tentare un’azione contro-egemonica” e anzi colpevole “di aver ironizzato sui pochissimi tentativi avviati in quella direzione, ostacolandoli.”
Se la prima parte dell’editoriale di Galli della Loggia appare, sia pure con rilevanti riserve, utile e relativamente condivisibile, la seconda risulta invece del tutto inutile e sostanzialmente priva di senso. Dopo avere giustamente stigmatizzato gli eccessi dell’antifascismo esagitato e caricaturale, definito nient’altro che la “versione radicale di una posizione ideologica di sinistra” generata da motivazioni di “bassa cucina politica”, il professore ripesca dalla finestra quello che ha buttato fuori dalla porta reclamando pregiudizialmente l’abiura ed l’autocritica nei confronti del Fascismo come patente di credibilità politica: “Quel che conta è che il fascismo è radicalmente incompatibile con la democrazia liberale e dunque governare l’Italia non si può se non si dà sul fascismo un giudizio siffatto [cioè “totalmente negativo” ndr]. Lo richiedono la nostra storia, i principi della nostra Costituzione, le alleanze e le amicizie internazionali che vogliamo mantenere. Lo richiede la possibilità di diventare domani classe dirigente del Paese. È su questo terreno che Fratelli d’Italia è chiamata a misurarsi. La storia non è acqua: neppure la sua e quella dei suoi dirigenti.”
Che senso può avere un simile anatema in fondo non molto diverso da quelli, solamente più sguaiati, criticati poche righe prima? Perchè pretendere come condizione di agibilità politica una pubblica e plateale abiura nei confronti di un fenomeno storico defunto 74 anni fa ad uno schieramento che per 73 anni ha sempre partecipato lealmente, dal MSI a FDI, alla vita democratica del Paese? O è solo il solito avvertimento: se vuole governare la destra si deve snaturare ed omologare diventando diversa da quello che è, diventando simile a quello che fa comodo ai suoi vari avversari. Quali sarebbero, ad esempio, “le amicizie internazionali che vogliamo mantenere”? Mantenere che cosa, il ruolo subalterno e servile nei confronti della UE come un Letta o un Gentiloni qualsiasi rinunciando a difendere l’interesse nazionale? Altrimenti si è “fascisti” e quindi impresentabili?
La storiografia più seria, italiana e non solo, ha definitivamente interpretato e consegnato il Fascismo alla storia ed è lì che esso rimane nel bene e nel male, come oggetto di studio e riflessione storica non come strumentale clava politica da agitare ogni volta che faccia comodo. La strumentalizzazione della storia a fini politici è sempre un’operazione dannosa e di bassa lega, sia quella rozza e grossolana di certi antifascisti con la bava alla bocca, sia quella più compita e raffinata di certi accreditati editorialisti. Restando sul piano della storia, poi, è tutto da dimostrare che un corretto approccio di studio al Fascismo non possa fornire utili riferimenti anche oggi: basti pensare all’opera di Giovanni Gentile sulla scuola, a quella di Giuseppe Bottai su arte, ambiente e cultura, all’IRI di Beneduce in economia o alla “rivoluzione sociale” del corporativismo raccontata da Mario Bozzi Sentieri nel suo nuovo libro “L’Idea partecipativa dalla A alla Z”.
Per un autorevole studioso la scelta tra studio-riflessione e demonizzazione-scomunica, e in definitiva tra valutazione storica e polemica politica, in teoria dovrebbe essere scontata, ma a quanto pare non lo è affatto.
quelli che sembrano tanti bravi e intelligenti (come Draghi), fanno bella figura solo perché sono sostenuti dagli oligarchi del grande capitale, che sono quelli che vogliono distruggere la nostra civiltà. Logicamente governare è molto più difficile che promettere.