Questo è il 14° anno che si celebra il Giorno del Ricordo, istituito con legge del 30 marzo 2004 per conservare la memoria delle migliaia di vittime della violenza titina e dei 350 mila italiani costretti all’esodo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La giornata prescelta, il 10 febbraio, è significativa, perché il 10 febbraio 1947 venne firmato a Parigi il trattato di pace che assegnava alla Jugoslavia terre una volta italiane. Ci furono due stagioni violente: l’autunno 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, e la primavera del 1945. Gettati vivi nelle foibe, o chiusi nei campi di concentramento e poi buttati nell’Adriatico, morirono circa 11 mila italiani.
Franco Luxardo, 82 anni, è stato uno dei fortunati che ce l’ha fatta, ma nella sua Zara, da cui partì a 7 anni nell’agosto 1943 perché aveva bisogno di cure in Italia, ha lasciato il cuore. E un pezzo di identità. «La mia famiglia», racconta Franco Luxardo, che è succeduto a Ottavio Missoni nella presidenza dell’Associazione dalmati italiani nel mondo, «era radicata a Zara dal 1817. Producevamo il maraschino, un’attività che con enormi sacrifici mio padre ha ricreato nel dopoguerra a Torreglia, in provincia di Padova. Poi venne l’8 settembre e cominciarono le violenze. Tra la fine del 1943 e il ‘44 Zara venne bombardata 54 volte dagli americani, che su indicazione dei titini volevano colpire un sopravvalutato insediamento militare tedesco. Il primo novembre 1944 entrarono in città i partigiani di Tito e nella comunità dei 25 mila italiani cominciarono i lutti, che colpirono anche la nostra famiglia. Mio zio Piero, 54 anni, fu arrestato e dopo pochi mesi sparì: quando lo andarono a prendere lasciò l’orologio ai compagni di pagliericcio dicendo di consegnarlo alla moglie e al figlio; poi di lui non si seppe più nulla. Mio zio Nicolò, arrestato sull’isola di Selve, sparì con la moglie Bianca Ronzoni, milanese, durante un trasferimento in mare».
I partigiani di Tito fucilarono circa 150 italiani dopo l’ingresso a Zara. «Il piano era chiaro fin da subito», continua Luxardo. «Confiscare i beni degli italiani, compresa la nostra azienda». Così, dei quattro fratelli della famiglia Luxardo, quarta generazione di industriali, era rimasto solo il padre di Franco, Giorgio, poiché l’altro fratello, Demetrio, era scomparso prima. Giorgio si salvò perché era sotto le armi in Italia. Il Giorno del Ricordo, che si celebra dal 2004, è una conquista per chi come Franco Luxardo coniuga il sentimento di italianità al forte senso delle origini. Per questo dal 2004 fa incontri nelle scuole per trasmettere la memoria di un trauma nazionale. Resta una ferita aperta che vorrebbe sanare. È la consegna della medaglia d’oro al valor militare al gonfalone della città italiana di Zara. «Quella medaglia non ci è stata consegnata nel 2004 per le proteste croate, forse i tempi sono maturi per toglierla dal cassetto in cui è dimenticata».
Elisabetta Barich, 57 anni, due figli, una carriera in alcune case editrici milanesi, è troppo giovane per aver vissuto direttamente il dramma dell’esodo istriano dalmata, ma a quelle memorie è legata in maniera radicale. Mostra con orgoglio la lettera appena ricevuta da Claudio Antonelli, docente in Canada, il fratello dell’attrice scomparsa Laura. Gli Antonelli vengono da Pisino, città della regione istriana oggi Croazia. «Il campanile di Pisino, mia città natale, il cimitero, il torrente Foibe che sparisce in un baratro dantesco, il Castello e tutti quei frammenti dolorosi di una memoria collettiva», scrive Antonelli, «sono entrati nella mia anima, a partire dalla mia più tenera infanzia trascorsa nei campi profughi. Essi sono diventati la mia stessa coscienza». Alla famiglia di Elisabetta, radicata a Milano quanto a Zara, è stato risparmiato il trauma dei campi profughi toccato ai circa 350 mila esuli. Ma in casa, racconta, «è vivo il ricordo della fuga cui furono costretti mio padre Massimo e mia nonna Gabriella dopo l’8 settembre ‘43. Rifugiatisi sull’isola di Petrcane, si imbarcarono per l’Istria e la mia intraprendente nonna per raggiungere in sicurezza l’Italia acquistò l’intero carico di un camion che trasportava rape. Anche le case della nostra famiglia vennero sequestrate. La nonna negli anni Cinquanta bussò alla porta dell’abitazione dove c’erano ancora i suoi mobili, ma la nuova inquilina non la fece entrare».
Il trauma dell’esodo, il dolore delle migliaia di morti, buttati nelle foibe, annegati durante i trasferimenti in mare o fucilati dalla polizia titina sono il cemento della memoria di una comunità. Per questo Elisabetta vive con disagio le iniziative polemiche che vengono organizzate nel Giorno del Ricordo. «Le sembra naturale che alla commemorazione di Ravenna non venga invitato nemmeno uno dei familiari delle vittime dell’esodo e della violenza titina? O che a Parma e Orvieto vengano organizzate manifestazioni intitolate “Foibe e Fascismo”, quasi a sminuire il sacrificio della nostra gente?». Certo il fascismo compì dei crimini anche in quelle terre ma nel Giorno del Ricordo forse bisognerebbe parlare del sacrificio di una comunità italiana colpita a prescindere dalle appartenenze ideologiche.
Dino Messina, Corriere della Sera, 21 luglio 2018