Rileggo, a cinquant’anni dalla pubblicazione, la Lettera a una professoressa firmata dai ragazzi di Barbiana che si raccolsero attorno a don Lorenzo Milani: il priore moriva il 26 giugno di quello stesso 1967, poco più che quarantenne, e veniva sùbito laicamente santificato da chi voleva farne, senza consultarlo, un ispiratore delle imminenti rivolte, elevato grazie anche a quella Lettera agli altari novecenteschi della contestazione. Ogni rivoluzione del resto ha il suo cappellano, di solito cattolico: quella francese ebbe l’abbé Grégoire, prete e persecutore.
Don Milani e i suoi contadini – ossia poveri, come li si chiamava nel linguaggio della scuola rurale di Barbiana, con termine che copriva indistintamente l’indigenza materiale e quella intellettuale, confondendo l’una con l’altra – presentavano in quel libriccino il programma di una scuola che si voleva inclusiva, democratica, rivolta non tanto a selezionare quanto ad accompagnare verso un livello minimo d’eguaglianza garantita, rimuovendo le differenze derivanti da censo e condizione sociale. Nobili ideali, senza dubbio, destinati a influenzare nei decenni successivi la scuola italiana, in cui molte delle raccomandazioni di don Milani e dei suoi ragazzi trovarono realizzazione talora puntuale, ben al di là – forse – delle loro stesse aspettative. Dalla sostituzione delle vecchie e inutili materie letterarie (a partire dall’inutilissima storia antica e dalla perfida poesia dei classici) con l’educazione civica e con la storia d’oggi; dalla cacciata della grammatica intesa come strumento d’oppressione all’abolizione di ogni forma di giudizio che distingua tra più bravi e meno bravi; dalla soppressione de iure o de facto della bocciatura – di ogni bocciatura – all’adeguamento del sistema educativo al passo dei più lenti. Sono tutti principî notissimi, e variamente giudicati e giudicabili, anche perché condizionati dal modo in cui volta a volta li si è applicati (di solito male; spesso peggio). Sarebbe fin troppo facile, e ingenerosamente sadico, osservare che la scuola prefigurata dalla Lettera a una professoressa è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo sgangherato egalitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola. Intanto, al santino di don Milani, che considerava la professoressa privilegiata e persino strapagata, occhieggiano oggi i rappresentanti del corpo docente peggio pagato e peggio considerato dell’Occidente.
La buona fede della professoressa è un’aggravante, comunque difficile da accettare. Meglio credere che l’azzimata docente sia ben informata del complotto, e lo avalli in coscienza, d’accordo col dottore e col giudice di cui è sposa fedele (così la Lettera). Crederlo renderà più gustosa la sassaiola. La colpa, in fondo, è sempre della professoressa, ultimo ingranaggio del «carro armato» costruito dai ricchi (alias fascisti, aliasdottori, aliasPierino, nel linguaggio della Lettera) per schiacciare i poveri, alias contadini, alias Gianni, eroe degli ultimi di Barbiana, pronti a diventare i primi con rapidità ben poco evangelica. Già, perché nell’arco di pochi anni ricchi e poveri saranno indistinguibili, e finiranno per scambiarsi le parti in un balletto che avrebbe fatto girar la testa al curato del Mugello. Potenti diverranno gl’incensatori dell’altarino di don Milani, mentre gli odiati laureati, lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri (distribuiti con altri imperscrutabili criteri), faranno la coda per un posto da lavapiatti. Ma è così che i primi saranno ultimi? Ah che rebus! A restare al suo posto sarà solo la professoressa, composta donna d’ordine che ieri bocciava troppo e oggi nemmeno può, anche volendo: ieri come oggi, sotto la gragnuola d’insulti di chi la vuole responsabile di tutti gli analfabetismi, capro espiatorio di ogni delitto. Mi fa una tenerezza. Sarà anche per questo che, in barba ai lapidatori seriali, ai curati ribelli e ai loro chierichetti, ai cercatori di complotti e ai pubblici predicatori, non so che farci: quasi per istinto, io sto con la professoressa.
Lorenzo Tomasin, Sole 24 Ore, 26 febbraio 2017