Sanremo e le polemiche, un matrimonio di lungo corso. Si potrebbe parlare di nozze d’argento o perfino d’oro, inusuale, e davvero lodevole, nella società fluida del postmodernismo contemporaneo. Chapeau, insomma, al trionfo del relativismo qualunquista, di nessuna parte e identità. Tra cantanti non vaccinati, “giustamente” tutelati nella propria privacy, pugni chiusi che si librano nell’aria al termine di esibizioni che nessuno ricorderà, autobattesimi perimetrali senza contenuto, monologhi triti e ritriti su battaglie civili impellenti e presunte emergenze sociali. Tutto a spese del povero contribuente, costretto a ingurgitare l’indigesto polpettone.
E la musica? Antica e noiosa obiezione, colpevolmente proferita da nostalgici di una televisione in grado di promuovere conoscenza, sapere, bellezza e intrattenimento. La kermesse canora più famosa d’Italia si sveste progressivamente della propria identità e storia, perdendo il suo originario profilo nazional popolare, omologandosi a festival e rassegne internazionali costruite a tavolino, all’insegna del politically correct. Per apprezzare Sanremo, le sue canzoni, sarà necessario attenderne la conclusione, affidandosi alla radio, il media più diffusivo e affascinante.
Cosa si potrebbe fare per rimettere la musica al centro dell’Ariston? Chiudere la porta alla politica tanto di destra che di sinistra, per par condicio, evitare il ricorso sistematico a ospiti e comparsate estranei al mondo della musica, abolire la piaga dell’auditel che confonde la qualità con la quantità. Rifuggire, soprattutto, qualsiasi forma di volgarità e cattivo gusto. Il Festival, mi si obietterà, deve provocare, suscitare riflessioni ed emozionare. Non può chiudersi in se stesso, prescindendo dal mondo che lo circonda. Niente da ridire al riguardo. Ma lo stimolo dovrebbe muovere dal prodotto artistico, dalla canzone, dalla performance e non viceversa. Ci si mette a servizio della musica, la si ama, si “vive per lei”.
O così dovrebbe essere…