Diversissimi tra loro, lo scorso inverno sono usciti in Italia (direttamente sul piccolo schermo, dati gli ormai endemici problemi distributivi) due film indipendenti: uno statunitense, e uno franco-belga.
“Breaking News a Yuba County” (diretto da Tate Taylor, già regista dello stucchevole “The Help” e del più efficace “La ragazza del treno”): Sue (Allison Jeanney, già Oscar – esagerato – per un’altra galleria degli orrori nella provincia USA: “Tonya”), provinciale yankee frustrata, scatena senza volerlo (e senza curarsene) una spirale d’omicidi. La sua vita sembra cambiare il giorno del suo compleanno (per il quale nessuno le fa gli auguri), quando fa morire d’infarto il marito Karl (Matthew Modine, “Full Metal Jacket”) sorprendendolo in un motel con la repellente amante: lo seppellisce e tiene per sé i tre milioni di dollari che il defunto doveva riciclare per conto di feroci criminali asiatici. Sue racconta alla giornalista Nancy (Mila Kunis), sorellastra con la quale non c’è mai stato affetto, che Karl è stato rapito: spera così di suscitare lo stesso clamore attirato in quegli stessi giorni dalla sparizione d’una bambina, e di conseguenza l’attenzione di Gloria Michaels (la rediviva Juliette Lewis), conduttrice di tv-spazzatura. Non fa però i conti col fatto che i “legittimi” proprietari del malloppo (il cupo gangster coreano Kim, la sua esagitata figlia Mina – la rapper Awkwafina, già protagonista di “The Farewell” – e il loro inquietante socio Ray), cercano i tre milioni; e che l’ingarbugliarsi delle sue menzogne sta attirando l’attenzione della detective Harris e del suo (infido) assistente. La trama di scemenze di Sue coinvolge nel frattempo anche il cognato Pete, la di lui moglie Jonelle (incinta e, con Nancy e la detective, uno dei pochi personaggi dotati di cervello), oltre a Wanda (collega di Pete in un negozio di elettrodomestici) e alla di lei compagna Debbie (Ellen Barkin).
Ovvio il confronto con “Fargo”, altro film in cui un rapimento mai avvenuto, una serie di menzogne e tanta stupidità innescano una scia di sangue sullo sfondo della provincia USA, mentre una poliziotta prova a capirci qualcosa. Se però i sopravvalutati fratelli Cohen nel nichilismo e nel cinismo sguazzano (e a causa del successo di quel film bisogna tuttora sorbirsi Frances McDormand, William H. Macy, Steve Buscemi e Pete Stormare), il film di Taylor ha un’altra direzione. I Cohen (e spazzatura animata come i “I Griffin” e “Adult Swim” – roba creata e prodotta da gente come James Franco, una pletora di Seth: MacFarlane, Green, Rogen, e altri accoliti di Jeffrey Epstein) non denunciano la grettezza, l’egoismo, l’avidità, la cattiveria: mostrano il peggio degli esseri umani perché a loro sta bene così, li diverte, se ne compiacciono. Negano le altezze, per loro l’umanità non può essere bella, virtuosa, addirittura gloriosa: hanno spinto in là il nichilismo di Woody Allen (come loro, ebreo per formazione ma ateo per convinzione); con la differenza che a volte Allen ha saputo essere geniale – anche perché nella bellezza in fondo crede (si pensi all’elenco di “cose per cui vale la pena vivere” che snocciola in “Manhattan”). “Breaking News a Yuba Country” riflette il terrificante danno culturale, sociale e umano del nichilismo “à la Cohen” (e alla “Griffin”, e alla Ari Aster – regista horror convintissimo che la famiglia sia per forza di cose il nido del male): ma nel vuoto vede il problema, non – come costoro – anche la risposta (di comodo). Se nei celebratissimi film dei Cohen l’egoismo e l’idiozia (come in “Burn After Reading”, quasi un remake di “Fargo”) sono i soli motori del mondo, nel piccolo film di Taylor sì, il problema è questo: ma al male non si risponde col male, nel burrone del nichilismo non si sguazza. Sue è senz’altro un riassunto di tante magagne dell’Occidente contemporaneo: non ha carattere, non sa ragionare, è compulsivamente bugiarda, è in perenne ricerca d’attenzione (si compiace di ascoltare i motti di compassione delle colleghe, convinte che sia disperata per la sparizione del marito); soprattutto, è egocentrica. Non tanto perché questa sia una caratteristica della sua personalità: piuttosto, questo accentramento su se stessa è una diretta conseguenza d’una terribile e perniciosissima moda culturale. Sue ripete i mantra imparati dai manuali di auto-aiuto: “io valgo, io sono importante”. Tra internet, gli spot televisivi e le prediche degli psicologi da “social network”, questo ricorso all’auto-convinzione è diffusissimo: pubblicità che invitano a considerare se stessi (e non la società, non il mondo circostante) come metro di valutazione del proprio valore; blogger e influencer che diffondono questi stessi motti (tra gli “hikikomori”, i ragazzini autoreclusi, e le comunità LGBT, lo scambio di immaginette virtuali con scritto “io valgo, io vado bene, io conto, io sono importante, io mi basto, io non ho bisogno di nessuno” per consolarsi del proprio disadattamento, è a dir poco frenetico); e, quel che è peggio, psicoterapeuti che incoraggiano questa auto-convinzione. Si può essere un fallito, un analfabeta, un totale incapace, un disagiato: la soluzione è rinchiudersi nel solipsismo. Che fa rima con mancanza di qualità, dato che il confronto con gli altri, persino la competizione sono indispensabili (pe la crescita di sé come per quella del mondo circostante: nessun uomo è un’isola). C’è però chi ha convenienza nel fomentare il nichilismo, e nel crescere una società di nullità: perciò la cultura pop dominante incoraggia l’autoreferenzialità, la tristezza (davvero qualcuno trova divertente “Il trono di spade”, una saga fantasy in cui non esistono buoni?), la mediocrità. Torme di adolescenti (più vittime che colpevoli) si mettono la divisa: cretinate “woke”, capelli viola e ammennicoli arcobaleno, obesità dilagante (la forma fisica è un “costrutto sociale”), giornate perse sullo smartphone, consumismo sfrenato. Se io (io, io, io) sono il mio metro di giudizio, se io basto a me (me, me, me) stesso, perché dovrei crescere? Distinguermi? Formarmi? Studiare? Realizzare qualcosa? Per stare con gli altri, per contribuire a una società? No, ho scritto su Facebook che “I’m valid”, perciò vado bene così, chi me lo fa fare di migliorare?
“Breaking News a Yuba Country” denuncia questo, la stupidità dei motti autoconsolatori, autoassolutori, autoreferenziali sempre più diffusi e sempre più dannosi. Non per nulla, Sue finisce col pubblicare un libro: su di sé, su se stessa. Complice il flagello anticulturale del “self-publishing”, migliaia di signor Nessuno in questi stessi anni “pubblicano” (no signori cari, si pubblica con le case editrici, quando un editore ti dice: bene, questo è un testo da pubblicare; voi non pubblicate, voi pagate per far stampare) tomi su se stessi, pure in totale assenza di vissuti interessanti, intasando col proprio capriccio egocentrico la produzione libraria (che, per colpa del fatto che ci sono più “scrittori” che non lettori, è prossima non tanto alla saturazione, quanto all’implosione).
Il film europeo è invece “Mandibles” (presentato a Venezia come “Mandibules – Due uomini e una mosca”), scritto e diretto dal parigino Quentin Dupieux (che, in qualità di musicista, si firma Mr. Oizo). Manu è un balordo affetto da ritardo mentale, al quale un criminale affida una commissione molto semplice: effettuare una consegna. Manu ruba un’automobile malridotta e chiede al sodale Jean-Gab (non proprio una cima, ma un attimo più presente di lui) di accompagnarlo all’avventura: i due scoprono che il cofano dell’autovettura ospita una mosca gigantesca e, nell’intento d’addestrarla perché compia dei furti per loro conto, tralasciano la consegna e finiscono per farsi ospitare da Cecile, una ragazza che sta trascorrendo le vacanze (col fratello antipaticissimo e altri ragazzi ricchi) nella villa dei genitori e scambia Manu per un compagno di liceo. Sugli scudi Adele Exarchopoulos (suo malgrado, nota soprattutto per lo stupido, tedioso “La vita di Adele”), nel ruolo della cerebrolesa Agnes (spettacolare il doppiaggio di Gianna Gesualdo). “Mandibules” fa parte d’un filone molto felice del cinema franco-belga di questi anni, la commedia grottesca: da “Rebelles” (Allan Mauduit, 2019), dove tre addette (variamente disagiate) al confezionamento del pesce in lattina si vendicano della violenza maschile, con Cécile de France (già attrice per Eastwood – “Hereafter”) e Yolande Moreau, che dopo un ruolo di contorno nell’orrendo “Il favoloso mondo di Amélie” è stata protagonista di “Louise-Michel” (Kervern & Delépine, 2008), nel quale delle operaie tessili, dopo aver scoperto che il padrone della fabbrica ha chiuso la baracca ed è scappato, ingaggiano un sicario incapace per vendicarsi.
A differenza di “Louise-Michel” e di “Rebelles”, “Mandibules” non è legato a una precisa situazione sociale e/o locale: è ambientato, come quegli altri due film, sulla costa della Manica, nella provincia depressa tra Francia e Belgio (ma, a differenza degli altri due, autunnali e grigiastri, “Mandibules” si svolge d’estate, in giornate tanto soleggiate da essere abbacinanti); ma se “Louise-Michel” racconta il dramma delle fabbriche chiuse per delocalizzazione e la tristezza della provincia, e se “Rebelles” è una storia di violenza e microcriminalità a ridosso d’un confine, con una precisissima collocazione geografica (Sandra, il personaggio di Cécile de France – la quale, nonostante il cognome, è belga – è continuamente derisa perché le sue aspirazioni da diva si sono fermate al titolo di “Miss Nord-Pas-du-Calais”); “Mandibules” è astratto (non per nulla, trae le mosse da un presupposto fantasioso – la mosca gigante). A parte la caduta di tono nella penultima scena (la consegna) “Mandibules” è sempre acuto, persino avvincente; e le sue trovate comiche – dalla fuga dell’uomo della roulotte al gesto del “toro” che si scambiano Manu e Jean-Gab, dalle urla di Agnes all’atroce incontro tra costei, la mosca e il cane – sempre geniali. Soprattutto, è uno sberleffo alla sicumera della Generazione Y, i trentenni di oggi: viziati e mollicci, Cecile e suo fratello non capiscono nulla di quel che succede: i soli ad avere la quadra della situazione, paradossalmente, sono gli “stupidi” – il ritardato Manu, il balordo Jean-Gab e l’handicappata Agnes che, in una scena angosciante, recupera la lucidità e prova a dire a Cecile come stanno le cose, ricevendone incomprensione e un castigo ingiusto.