Il “colonnello” Tom Parker, manager di Elvis Presley, prova a discolparsi dall’accusa d’aver distrutto il suo pupillo (morto d’infarto ad appena 42 anni), raccontando allo spettatore vita, imprese e miserie della prima grande rockstar: dall’amore per la madre Gladys all’incontro con la musica gospel nelle baracche di Tupelo, dal clamore suscitato da suoi primi concerti (e dai suoi micidiali ancheggiamenti) alla fondazione della faraonica dimora Graceland, dall’incontro con la futura moglie Priscilla durante il servizio militare in Germania alle speranze d’intraprendere una grande carriera cinematografica (mestamente spentasi tra i musicarelli), da una trasmissione televisiva natalizia trasformata in prepotente ritorno alla ribalta alla grottesca reclusione nella routine dei concerti a Las Vegas.
Già nel 2014 Baz Luhrmann, regista che realizza pochi film ma sempre sontuosi e lunghi (dopo il sopravvalutato “Moulin Rouge!” ha atteso sette anni per l’appena discreto “Australia”), aveva annunciato un film sul Re; nel frattempo, i biopic di cantanti sono diventati quasi una moda (Freddie Mercury – “Bohemian Rhapsody”, 2018; Judy Garland – “Judy”, 2019; Elton John – “Rocketman”, 2019; David Bowie – “Stardust”, 2020; persino Celine Dion – “Aline”, 2021), seguita a ruota da quelli sui calciatori (Totti, Baggio, Ibrahimovic).
Tom Hanks, con la sua faccia da americano medio sepolta nel trucco prostetico (naso, pappagorgia e riporto), come sempre non fa nulla di eccezionale: uno spreco, perché il “colonnello” Tom Parker (un sedicente ex militare del West Virginia, in realtà un olandese di nome Dries van Kuijk che ricevette il titolo da ufficiale per aver organizzato una campagna elettorale; manager di Elvis, fautore della sua scalata al successo e, secondo i detrattori, responsabile della sua rovina) era un personaggio abbastanza strambo da poter essere caratterizzato con più colore. Nel cast anche l’emergente Kodi Smit-McPhee (nel ruolo di Jimmie Rodgers Snow, figlio di Hank Snow, la star canadese del country cui Elvis faceva da supporter, salvo poi surclassare entrambi) e un cameo quasi istantaneo di Anthony LaPaglia (Bernard Lansky, il sarto che creò lo stile delle star rockabilly, da Elvis a Roy Orbinson).
Chiusura da lucciconi: prima dei titoli di coda (con in sottofondo “In the Ghetto”), a Austin Butler che ritrae un Elvis che, ormai agli sgoccioli, intona divinamente “Unchained Melody”, si sostituisce il filmato della sua ultima esibizione.
“Elvis” è un gran film, forse il più importante dell’anno. Trattandosi del Re dell’esagerazione, Baz Luhrmann esagera: il film è chiassoso, eccessivamente colorato, ritmato da didascalie a tutto schermo e varie invenzioni di post-produzione. Austin Butler è un ottimo protagonista: bello come Elvis, atletico come lo era il Re al massimo del suo splendore, ne rende bene il carisma, il magnetismo sessuale debordante, quando lo doppia (nelle canzoni giovanili) fa un lavoro eccellente, ed è bravissimo sul palco (la sua resa del medley del “’68 Comeback Special” è da applausi a scena aperta – altro che quelli “a comando” deplorati da Parker). Purtroppo il suo personaggio è fagocitato dalla scelta di raccontare la vita di Elvis riflessa nella sua vicenda con Parker: così Elvis non sembra avere una personalità, ma appare per lo più sballottato tra la volontà altrui – dalla madre ai censori, da Parker agli assistenti che lo rilanciano, dai gestori del casinò in cui si trova rinchiuso a cantare per cinque anni al medico che lo uccide con gli psicofarmaci.
Eppure Elvis Presley era una personalità di prim’ordine: le sue bizzarrie (i vestiti pacchiani, l’aereo, le bruttissime imitazioni di Bruce Lee con cui si lanciava sul palco), persino la sua volgarità sono soltanto alcuni aspetti d’un carattere complesso e geniale (un altro sbaglio di Luhrmann è stato non mettere in scena lo humour di Presley). Il pubblico di oggi è tediato dalle provocazioni banalissime e telecomandate dei Maneskin, dai sermoni a encefalogramma piatto di Fedez, dall’imbecillità dei trapper: può sembrare una stupidaggine, ma Presley è stato un punto di rottura, l’autentica irruzione dell’istinto e dell’animalità nel mondo dello spettacolo – oltre a essere stato un artista di vaglia: il fatto di non aver scritto quasi nessuna delle sue canzoni non sminuisce il suo essere stato un cantante completamente nuovo. “Après moi, le deluge”: Presley ha inventato un microcosmo (ahinoi, per lo più bruttissimo), quello del rock; e quei pochi, in quel piccolo brutto mondo, che abbiano avuto un’intelligenza al di sopra della media lo hanno imitato e omaggiato, da Bryan Ferry a Prince, da Kate Bush (che gli ha dedicato la sua ultima grande canzone, “King of the Mountain”) a Mark Knopfler (che ha chiuso l’avventura dei Dire Straits con la meravigliosa “Calling Elvis”).
Una coincidenza: nato l’8 di gennaio (sotto il Capricorno, il segno degli ambiziosi), Elvis condivide il compleanno con il più grande tra i suoi successori: David Bowie.
Ottima analisi del film anche se non l’ho visto ma da come lo descrive Tommaso de Brabant è un film da vedere bravo 👍 Marco Fumagalli sempre