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Energia/ In Tagikistan gli italiani costruiscono la diga più alta del mondo

di Marco Valle
4 Luglio 2021
in Home, Mondi
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Energia/ In Tagikistan gli italiani costruiscono la diga più alta del mondo
       

Poco in Italia si sa (e pochissimo si parla) del Tagikistan, la più piccola repubblica dell’Asia centrale ex sovietica, eppure in quella remota contrada, stretta tra le catene montuose del Pamir e del Trans-Alay con vette che raggiungono i 7000 metri, si sta scrivendo una pagina d’eccellenza italiana.

Ma andiamo per ordine. Indipendente dal 9 settembre 1991, il Paese è da allora guidato da Emomali Rahmon, ex direttore di un sovchoz ai tempi dell’URSS. Una leadership spesso criticata, certamente ruvida ma abbastanza efficace e soprattutto inscalfibile: nel 2016 il 94,5 per cento degli elettori ha votato un referendum che permette al presidente d’essere rieletto senza restrizioni temporali e nel 2020 il leader è stato riconfermato con il 90 per cento dei consensi. Dati che hanno fatto storcere il naso ai rari osservatori occidentali interessati al Tagikistan ma che hanno fondamento in una somma di fattori che spiegano, almeno in parte, il massiccio consenso all’immarcescibile presidente. Grazie all’appoggio della Russia, tutt’oggi la potenza di riferimento, il roccioso Rahmon è riuscito a superare le turbolenze del periodo post-comunista, respingere negli anni Novanta la minaccia islamico-integralista fomentata dal confinante Afghanistan talebano, risolvere i problemi con l’Uzbekistan e il Kirghistan e avviare una lenta modernizzazione dell’economia che ha determinato una crescita continua del Pil (+ 7.0 nel 2019). Al netto delle criticità (il tasso di povertà è ancora del 30%), un quadro abbastanza stabile che ha attratto i primi investitori occidentali tra cui la veronese Carrera Jeans della famiglia Tacchella che ha impiantato a Khodjand due fabbriche con tremila dipendenti. 

Nel frattempo il governo di Dushanbe (la piccola capitale) ha deciso di accelerare i piani di sviluppo, in primis quelli energetici riprendendo uno dei sogni di Nikita Krusciov: un gigantesco sbarramento per sfruttare le impetuose acque del fiume Vaskhs — importante affluente dell’Amu Darya, il più grande fiume dell’Asia centrale — e dissetare l’intera Asia sovietica. Un progetto del 1959, più volte ripreso e continuamente interrotto, rimandato e infine, con la disgregazione dell’URSS, dimenticato negli archivi.

Finalmente nel 2016 il governo tagiko — con il sostegno della Banca Mondiale — si è rivolto agli italiani di Salini Impregilo (oggi gruppo Webuild) per realizzare tra i monti del Pamir, esattamente a Rogun, la più grande e più elevata (1300 metri d’altezza) diga del mondo: un muro di 335 metri in materiale misto (2,7 milioni di sabbia e pietre con un’anima impermeabile in argilla) e un impianto di sei turbine con una potenza di 3.600 MW di energia elettrica. Una forza equivalente a tre reattori nucleari.

Una volta a regime la produzione permetterà di raddoppiare il potenziale energetico dell’intero Tagikistan, con effetti diretti dall’agricoltura (oggi solo il 7% del territorio è coltivabile) all’approvvigionamento interno fino agli scambi internazionali. In prospettiva la piccola repubblica vuole diventare il “rubinetto” dell’intera area. Uzbekistan, Kirghistan, Afghanistan e Pakistan, dimenticando i molti attriti e le forti diffidenze del passato, hanno già annunciato l’intenzione di acquistare l’energia prodotta dalla diga.

Per Webuild il Rogun Hydropower Project rappresenta un contratto di 3,9 miliardi di dollari e una sfida tecnica straordinaria da completare entro il 2028. Una volta aperto il grande cantiere (in cui lavorano 22mila persone) non si è perso tempo: il Vakhsh è stato deviato e fatto confluire in due gallerie realizzate per mettere all’asciutto le fondamenta della diga. Un’operazione molto complessa che, per via della portata idrica del fiume, è stata completata nei mesi invernali, quando le montagne sono innevate e il livello dell’acqua si riduce. Nel 2018 sono entrate in funzione le prime due turbine da 600 megawatt ciascuna che permettono l’”early generation”, ovvero la produzione prima del completamento definitivo dell’opera. Il Tagikistan ha iniziato così ad esportare gradualmente energia investendo il ricavato nei lavori ed assicurando luce e riscaldamento a un numero sempre maggiore di abitanti.

Il dilagare della pandemia non ha fermato il cantiere. Anzi. Per l’ambizioso progetto idroelettrico il governo ha ricevuto dalle istituzioni internazionali — ancora la Banca Mondiale, poi il Fondo Monetario Internazionale e l’ASB (Asian Development Bank) — ulteriori 300 milioni di dollari in sovvenzioni e crediti e altri 70 milioni sono in arrivo. Debiti pesanti ma per la fragile economia tagika, ancora fortemente dipendente da Mosca, una scelta obbligata. Un problema non da poco. Nel 2019 le rimesse dei tantissimi tagiki emigrati in Russia — un milione di persone su una popolazione di nove milioni, il 16 per cento dei lavoratori stranieri nella Federazione — ammontavano a 3,8 miliardi di dollari, il 40 per cento del Prodotto interno della repubblica. Un flusso di denaro che l’emergenza sanitaria ha pesantemente ridimensionato. Un disastro.

Con l’espandersi del virus la Russia ha serrato le frontiere e fermato quasi del tutto i voli con il Tagikistan e i preziosi trasferimenti di denaro sono diminuiti di quasi il 50 per cento con ricadute allarmanti sugli equilibri interni. A dicembre scorso Rustam Emomali, presidente del Senato e figlio ed erede del longevo leader, si è recato al Cremlino per perorare la causa dei lavoratori emigrati ribadendo fedeltà al potente alleato. In cambio di una almeno parziale riapertura delle frontiere, i tagiki hanno assicurato il pieno ripristino della lingua russa e dell’alfabeto cirillico nell’insegnamento pubblico e garantito il mantenimento, sino almeno al 2042, della grande base militare russa presso Dushanbe. Per il Tagikistan, oggi più che mai, il futuro è nelle mani degli italiani di Rogun.

Tags: ingegneriaRussiaTagikistanWebuild
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