L’appello di Eric Zemmour a difesa della lingua francese umiliata in Patria e in Europa, a suo avviso, dallo strabordare dell’inglese e la proposta choc di abolire l’insegnamento dell’idioma di Elisabetta II nelle scuole elementari transalpine oltre che negli incontri pubblici dell’Unione europea ha ravvivato di colpo la campagna per l’Eliseo. Una volta di più l’orchestra del main stream internazionale ha ripreso a suonare violente note d’odio contro l’anomalo candidato-polemista e da ogni dove sono scintillate folgori e versati anatemi.
Nulla di strano, a ben vedere. Per lo scenario progressista e dintorni Zemmour è e resta terribilmente irritante, insopportabile, odioso. Non solo perché il giornalista de “Le Figaro” si beffa del politicamente corretto e ridicolizza puntualmente (e sapientemente) tic e manie delle “anime belle”, ma soprattutto per la sua indubbia capacità a esplorare le tante ferite che piagano il corpo della Francia. Tra tutte, non a caso, la questione della lingua di Molière di cui Zemmour (premio Richelieu nel 2011) è da sempre accanito difensore.
Con buona pace degli osservatori superficiali (anche nostrani…) la retrocessione e l’imbastardimento del francese è una questione complicata in cui s’intrecciano diversi fattori, in primis lo status geopolitico della Francia stessa. Dal Quebec alla Polinesia, da Pondichèry in India all’Africa occidentale, dalle Comore alla Martinica e al Belgio vallone, 274 milioni di persone sono francofone e 84 stati aderiscono all’Organisation international de la Francophonie, uno strumento voluto da Charles de Gaulle (e Lèopold Senghor, primo presidente del Senegal) e sempre più trascurato dai suoi successori. Uno spazio umano, politico ed economico enorme destinato, viste le tendenze demografiche africane, ad ampliarsi nel 2050 a quota 800 milioni. Ovviamente se il francese continuerà ad essere insegnato e praticato….
E qui vi è il punto dolente indicato proprio da Zemmour. Diventa difficile difendere e diffondere la lingua e la cultura francese nel mondo (anche oltre i perimetri del defunto impero coloniale) se la scuola pubblica francese non è all’altezza dei suoi compiti e assomiglia sempre più «ad un Titanic perforato dall’iceberg del pedagogismo antinazionale post 68, una scuola che ha perso il gusto di trasmettere per invece indottrinare i nostri bimbi con nozioni d’antirazzismo, propaganda LGBT. I saperi fondamentali sono trascurati. I ragazzi non conoscono più la storia di Francia ma vengono ossessionati da continue colpevolizzazioni (sullo schiavismo, il colonialismo etc.) e si propone persino di favorire ai l’apprendimento delle lingue d’origine ai figli degli emigrati». Da questa serie di fattori micidiali nasce la proposta “scandalosa” di Zemmour: riconquistare al francese la sua primazia nell’insegnamento pubblico anche a scapito dell’inglese. Ma non solo. Per il candidato all’Eliseo è tempo che l’Unione europea, ormai orfana della Gran Bretagna, riprenda come fu ai suoi esordi il francese come lingua principale.
Insomma per Zemmour “c’è un’anima francese” da difendere e salvare. Quell’anima dilatandosi nei suoi libri fino a riassumere nella teorizzazione di un “destino francese” – celebre titolo di un suo volume – la visione di una società che si oppone alla decadenza riconoscendo e riscoprendo le proprie radici. Radici, sostiene Zemmour, divelte fin dal 1789, dalla Grande Rivoluzione ispiratrice di tutti i movimenti sovversivi culminati nel 1968 quando venne disegnata la nostra epoca. «La Francia – scrive Zemmour nel suo libro più suggestivo, “Il suicidio francese” – è il malato d’Europa. Gli economisti valutano la sua perdita di competitività. I saggisti dissertano del suo declino. I diplomatici e i militari lamentano sommessi il suo declassamento strategico. Gli psicologi sono allarmati dal suo pessimismo. I sondaggisti ne misurano la disperazione. Le anime belle ne denunciano il ripiegamento su se stessa. I giovani neolaureati vanno in esilio. Gli stranieri più francofili sono preoccupati per il degrado della sua scuola, della sua cultura, della sua lingua, del suo paesaggio, perfino della sua cucina. La Francia fa paura. La Francia si fa paura. La Francia è sempre meno piacevole; la Francia non si vuole più bene. La dolce Francia si muta nella Francia amara; infelice come lo è Dio in Francia».