“A border is always a temptation”, una frontiera è sempre una tentazione. Con queste secche parole James Cook liquidava gli scocciatori che lo importunavano con domande su “cosa” lo spingesse ad attraversare gli oceani, a cercare nuove stelle e altri orizzonti. Una lezione di Stile, ma non solo. La consegna del comandante de “l’Endeavour” — vero “master and commander” — riassume meglio d’ogni dotta analisi o indagine psicologica le motivazioni profonde che, in ogni epoca e momento, hanno ispirato un particolare tipo d’uomo: l’esploratore, una figura enigmatica, fascinosa e senza tempo.
Autentico paradigma dell’avventura, l’esploratore conobbe nell’Ottocento — l’epoca d’oro delle grandi spedizioni africane e del “grande gioco” in Asia centrale — la sua consacrazione definitiva. L’iconografia popolare raccontava al pubblico europeo e nord americano le gesti mirabolanti di personaggi eccezionali, di uomini spersi in immensità sconosciute ma sempre con in testa il casco coloniale e nelle mani una mappa, un sestante o un fucile; tipi duri, disincantati, talvolta ironici ma sempre pronti ad affrontare ogni pericolo: animali feroci, cannibali affamati, schiavisti arabi, crudeli re indigeni, ottusi burocrati europei. Nel nome della Civiltà e della bandiera. Un ritratto ingenuo e rassicurante ma forte.
Intere generazioni in Europa (e non solo) si appassionarono alle avventure d’oltremare di Jules Verne, Emilio Salgari, Karl May e d’Edgar Wallace. E poi, Kipling, Stevenson e Conrad. Letturatura popolare e/o letteratura “alta”: “Kim” e “La regina del Dahomey”, “Lord Jim” e “Bosambo”, “King Salomon’s Mines”, “L’isola misteriosa” e i “Racconti dei mari del Sud”. E poi, il ciclo del mitico “Tarzan”, creato esattamente un secolo fa dalla fantasia di uno squattrinato Edgar Rice Burroughs. Un oceano di storie: scorrendo quelle pagine, divorando quei libri, milioni di ragazzi sognarono mondi segreti, imprese impossibili, amori esotici.
Immagini, suggestioni, fantasie, sicuramente. Eppure quanti imberbi (e non solo) immaginarono di condividere le gesta di Allan Quatermain, il rude protagonista de “Le Miniere di Salomone”, il capolavoro di H. Ridder Haggard? E chi, tra i cinquantenni di oggi, non rimase colpito dalla trasposizione cinematografica del libro di Haggard (vincitore, tra l’altro, di due meritati Oscar nel 1951) e s’immaginò almeno per un attimo al posto di Stewart Granger, il burbero capo spedizione, abbracciato, tra una zagaglia e l’altra, ad una meravigliosa Deborah Kerr?
Persino oggi, in questo presente globalizzato da internet e telefonini, in un mondo punteggiato da aeroporti e villaggi turistici, restiamo intrigati dai “viaggiatori straordinari” di ieri e dell’altro ieri; l’avventuroso sapiente (magari un po’ gaglioffo ma romantico…) rimane un mito potente e testardo che — come dimostrano il successo della saga di Indiana Jones o della trilogia de “La mummia” (e le tante imitazioni), le tavole di Hugo Pratt, i romanzi “coloniali” di Giorgio Ballario, i libri sul “great game” di Peter Hopkirk e il “Tin Tin” di Hergé riproposto da Spielberg… — nemmeno le play station e il “politicamente corretto” sono riuscite ad espellere dall’immaginario diffuso.
Romanticismo, certo. Nella realtà, l’esploratore è stato un personaggio ben più complesso, espressione, magari contradditoria, di un’epoca e di una cultura. Come ricordano i tanti (forse troppi…) critici del colonialismo, i viaggiatori avevano una precisa funzione sociale e politica: informare i contemporanei sullo stato del mondo, portar loro informazioni su luoghi misteriosi e inaccessibili, rappresentare la Civiltà in aree selvagge, cercare risorse, ricchezze, mercati. Tutto vero o quasi. Al tempo stesso, scorrendo le biografie e i diari, scopriamo uomini inquieti, sempre a disagio, se non in totale rottura, con la società da cui provenivano. Autentici cuori ribelli, insofferenti delle convenzioni e irriducibili romantici, nelle “terre incognite” gli esploratori cercavano non solo fama o ricchezze ma, innanzitutto, la possibilità di dare un senso “alto”, eroico alla propria vita.
Appena abbandonato l’ultimo avamposto, il protagonista dell’avventura — ormai fabbro del proprio destino — poteva riscrivere regole, ritmi, comandamenti, conquistare regni e popoli. Una sensazione di assoluta libertà che valeva ogni rischio: il “viaggiatore straordinario” poteva ammalarsi o cadere prigioniero, languire e spegnersi in modo atroce in qualche angolo sperduto, ogni spedizione poteva trasformarsi — per una micidiale “roulette russa” — in un disastro, eppure ogni imprevisto, anche il più tragico, era preferibile alle atmosfere asfittiche della madrepatria.
Una visione del mondo che ritroviamo nelle lettere di un esploratore perugino, il marchese Orazio Antinori: «Meglio cento volte la tenda del beduino, meglio il dorso del cammello, meglio la continua lotta e la sublime incertezza dell’indomani. In Africa, in Africa! Io voglio morire libero come la sua natura!». Antinori non millantava. La “nera signora” lo colse durante una spedizione a Lèt Marefià, nel cuore dell’Abissinia. Era il 26 agosto 1882.
Una comunità avventurosa (e tricolore)
Di quel tempo ormai lontano il cinema e l’editoria ci hanno consegnato una lettura quasi esclusivamente anglo sassone, imperniata principalmente sui nomi di Livingstone, Stanley, Burton e Speke e pochi altri. Un’impostazione comprensibile, persino legittima in un’ottica d’oltre Manica, ma decisamente parziale e storicamente incompleta e, dunque, più volte contestata (in modi diversi e con risultati contradditori) dagli storici francesi, olandesi, belgi, portoghesi, spagnoli, persino tedeschi. Solo in Italia — per una buffa ritrosia o per mero provincialismo — sui protagonisti italiani di quella grande stagione dell’esplorazione geografica e naturalistica, per decenni si è preferito tacere. Per i ragazzi d’oggi, Bottego, Gessi, Brazzà e tutti gli altri sono ormai solo un ornamento toponomastico o l’oscura titolazione di qualche vecchia scuola. Nulla di più.
Ma proprio in questi mesi, per una strana e fortunata coincidenza, alcuni piccoli e coraggiosi editori hanno deciso di ricordare quella straordinaria quanto bizzarra “comunità avventurosa” — modello e ispirazione del capitano Salgari — che percorse tra Ottocento e Novecento le zone più selvagge e inesplorate dei cinque continenti: dal Corno d’Africa al Borneo, dalla Lapponia all’Amazzonia, dall’Alaska al Congo.
Ecco, allora, Stefano Mazzotti e il suo bel libro dedicato agli “Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento”; l’autore, conservatore del Museo civico di storia naturale di Ferrara, ha raccolto con minuzia e passione le vicende e le tribolazioni di un eterogeneo manipolo di italici esploratori, personaggi diversissimi per estrazione sociale e credo politico ma accomunati «da uno spirito di conoscenza e di esplorazione, da una curiosità che li rendeva irrequieti in patria e formidabili perlustratori e raccoglitori di nuove conoscenze, nelle “terre incognite” di un pianeta ancora tutto da scoprire».
Pagina dopo pagina Mazzotti presenta al lettore una lunga galleria di figure sorprendenti come l’enologo veneto Carlo Luigi Spegazzini, poi docente di botanica all’Università de La Plata ed esploratore della Patagonia o come Vittorio Bottego “il leone del Giuba”, capitano del Regio esercito, splendido cavallerizzo e zoologo d’eccezione. Morirà trucidato dai guerrieri Galla nel 1897 in Etiopia. L’Italia lo ringrazierà con una Medaglia d’Oro al valor militare.
E poi vi sono Orazio Antinori e Giacomo Doria, e perfino un membro della famiglia reale, certamente il migliore di una dinastia ormai appassita: Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi. Assieme a loro troviamo Odoardo Beccari, grande esperto di palme, che trascorse lunghi mesi in perfetta solitudine in una capanna su palafitte nell’isola di Borneo, Lamberto Loria, laureato in matematica prima di diventare un appassionato etnologo che esplorerà la Lapponia, il Turkestan e la Nuova Guinea e ancora Luigi Robecchi Bricchetti in Somalia, Filippo de Filippi nel Caucaso e sull’Himalaya, Leonardo Fea in Birmania, Giacomo Bove al Polo Nord e in Patagonia.
Tanti percorsi, tutti differenti ma sempre intrecciati. Come notava con acutezza su “Il Sole 24 Ore” Alessandro Minelli, “Gli esploratori perduti” raccontati da Mazzotti rappresentano storie diverse «per le radici familiari e culturali di ciascuno, per le motivazioni che li mettono in cammino, per gli orizzonti geografici in cui si avventurano e per le vicende che segnano le tappe dei loro viaggi. Storie tuttavia simili, non solo per lo straordinario e appassionato impegno che le accomuna, ma anche per il loro significato scientifico e per le loro relazioni con la politica culturale di un’Italia da poco unita. Un’Italia la cui Società di Esplorazione manda Pellegrino Matteucci ad attraversare l’Abissinia con scopi che sono insieme scientifici e commerciali; un’Italia il cui governo delega Orazio Antinori a rappresentarlo in occasione della cerimonia di apertura del Canale di Suez; un’Italia che vuole insediare una sua base sulle rive del Mar Rosso e manda in quella regione una spedizione della quale fanno parte anche tre naturalisti. Un’Italia, la cui Società Geografica è per molti anni l’indiscusso punto di riferimento per i nostri esploratori, che sviluppa un preciso disegno culturale. Questo ha il suo braccio operativo nel Museo di storia naturale creato a Genova da Giacomo Doria nel 1867, che diventa la sede d’elezione per la conservazione e lo studio dei materiali zoologici raccolti, e nelle collezioni dello Studio di Firenze, che hanno analoga funzione per i materiali botanici, antropologici ed etnografici; altri reperti finiscono al Museo di storia naturale di Milano. Un complesso di scelte illuminate, per un’Italia che non aveva allora un Museo nazionale di storia naturale».
Nel segno di Salgari
Se i protagonisti di Mazzotti furono espressione, più o meno ufficiale, di un’Italia post unitaria ancora arretrata, povera, magari velleitaria ma ambiziosa e intraprendente, vi fu anche chi, per scelta o necessità, s’improvvisò viaggiatore “fai da te”. A questa pattuglia d’appassionati dell’avventura estrema rende omaggio Silvino Gonzato con il suo “Esploratori italiani”. Il giornalista veronese — non a caso uno dei principali studiosi di Salgari — presenta sei coinvolgenti ritratti di personaggi degni della penna del grande Emilio: Pietro Savorgnan di Brazzà, Guglielmo Massaja, Giovanni Miami, Giovan Battista Cerruti, Giacomo Bove e Augusto Franzoj; tutti loro, armati d’incredibile coraggio e di una buona dose di sana follia, si spinsero sino al limite estremo delle proprie possibilità.
Gonzago ci regala storie meravigliose e dimenticate come quella di Padre Massaja che, abbandonato un comodo posto di precettore presso la corte sabauda, si spinse su mandato del Vaticano in Abissinia. Nonostante il suo fervore, le speranze di convertire al cattolicesimo gli indigeni s’infransero contro la resistenza della chiesa copta e presto il Papa re — ben più preoccupato per i suoi domini italiani che delle anime degli africani — si dimenticò del suo vescovo lontano. Frà Guglielmo non si perse però d’animo e divenne, grazie alle sue vaghe conoscenze mediche e ad una notevole faccia tosta, mago guaritore e consigliere personale dell’ombroso imperatore Menelik. Durante la sua permanenza a corte Massaja approfondì le culture locali, fondò un villaggio che divenne Addis Abeba e, soprattutto, cercò di tessere una prima trama di rapporti tra il giovane Stato italiano e il regno africano. Ma l’alacrità del missionario non fu gradita in madrepatria: accusato dagli ambienti diplomatici d’intrighi internazionali, detestato dalla teocrazia romana per i suoi appelli a Vittorio Emanuele, il povero frate si ritrovò isolato. Alla fine — deluse anche le aspettative (e le pressanti richieste d’armi) di Menelik — il religioso rientrò in Italia. Morì da cardinale il 6 agosto 1889.
Decisamente diverso il destino e il temperamento di Giovanni Miami, intrepido viaggiatore, vero “uscocco” e grande puttaniere. Nato a Rovigo da una cameriera — ma figlio illegittimo del patrizio veneziano Alvise Bragadin, lontano discendente di Marco Antonio, l’eroe di Famagosta —, dilapidò la fortuna paterna nei bordelli e nei teatri (la musica lo appassionava quanto le donne…); autentico patriota e spirito intrepido, nel 1848-49 si distinse nella difesa della Repubblica di San Marco e, dopo la resa di Manin, seguì i più irrequieti nella guerra civile spagnola. Poi, in qualche modo, Miami si ritrovò a Costantinopoli come improbabile baritono, ma il sultano — seppur di bocca buona — non apprezzò la sua arte. Da qui l’Africa.
Sul lastrico ma inebriato dai resoconti degli esploratori britannici, Giovanni decise di partire alla scoperta delle misteriose sorgenti del Nilo. Da subito la sua bizzarra spedizione — fornita di attrezzature da teatro, spadoni e corazze di latta rubate all’Operà del Cairo — si rivelò un disastro. Abbandonato dai suoi sodali, Miami proseguì arditamente lungo piste sconosciute: alla fine, solo e ammalato, si arrese a soli sessanta chilometri dall’agognata meta. Per ostinazione o disperazione, qualche anno dopo volle ripartire. A 61 anni. Da Khartum, l’ultimo scalcinato avamposto dell’Europa, s’inoltrò tutto solo verso l’ignoto. Trovò una morte dignitosa nel novembre del 1872 tra i cannibali del Monbuttu (i terribili “Nian Niam”); all’ultima amica, una benevola vedova veneziana, il messaggio finale: «i posteri vedranno che ho fatto un viaggio storico».
Ma il “continente nero” non fu l’unico miraggio degli eroi di Gonzago. Ad esempio, il comandante Giovan Battista Cerrutti, dopo aver tentato la fortuna nella britannica Singapore e nell’Indonesia allora olandese inscatolando frutta esotica — da qui l’umiliante soprannome di “capitan conserva” —, decise di scomparire nelle impenetrabili foreste del Borneo. Come il Lord Jim di Conrad, il marinaio genovese conquistò le simpatie di una tribù di avvelenatori, a tempo perso cacciatori di teste, e ne divenne il sovrano. Una volta consolidato il suo improbabile trono, da buon patriota Cerrutti decretò l’annessione del piccolo regno all’Italia. La cosa non piacque però alle autorità coloniali anglo-olandesi che avvertirono immediatamente (era il 1868) il governo di Firenze. Un vero e proprio incidente diplomatico. I ministri di Vittorio Emanuele II divennero paonazzi: senza saperlo, con un’iniziativa tutta personale il buon “capitan conserva” aveva vanificato uno dei primi progetti di colonizzazione del giovane Stato unitario. Da mesi, infatti, nelle acque del Borneo incrociava la pirofregata “Principessa Clotilde” della Regia Marina, ufficialmente per indagini scientifiche ma, in realtà, alla ricerca di una località adatta per stabilirvi uno stabilimento penale, podromico a un futuro insediamento coloniale.
Gli olandesi, supportati dalla potenza britannica, protestarono con tale forza che il governo italiano non solo rinunciò a convalidare ogni accordo sottoscritto da “king Cerrutti” con i capi tribù ma, poco dopo, sospese ogni missione nell’area. Cadde così ogni ipotesi di un’espansione coloniale nazionale nei mari del sud e l’Italia, obtorto collo, si ritrovò ristretta nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa. Affranto, Cerrutti abdicò e tornò mesto nella natia Varazze dove scrisse un libro di ricordi e tenne qualche conferenza, ottenendo qualche interesse dalla comunità scientifica ma nessun riconoscimento dal Regio governo. Dopo anni di silenzio, nel 1912, s’imbarcò per l’Oriente, per l’ultima avventura. Una peritonite lo fermò a Penang il 28 giugno 1914.
Altrettanto malinconica la vicenda di Giacomo Bove, ufficiale della Regia Marina e unico italiano a partecipare alla spedizione artica alla ricerca del “passaggio a Nord Est”. Una figura tragica: dopo i ghiacci, la sua anima tormentata lo portò ad indagare l’Africa (anche lui…) e poi la Patagonia. Ma le spedizioni, nonostante i buoni risultati scientifici, non appassionarono il pubblico e delusero i sostenitori. Bove non se ne fece una ragione; i suoi fantasmi non li diedero requie e il sette agosto 1887 scese a Verona (chissà perché proprio a Verona?) e decise di spararsi. Fu Emilio Salgari, allora giovane cronista de “l’Arena”, a narrare ai lettori del quotidiano scaligero la triste sorte dello “splendido marinaio”.
Dal Friuli al Congo
Nella galleria di Silvino Gonzato vi è però un nome che brilla su tutti: Pietro Savorgnan di Brazzà. Il conte-esploratore rimane un personaggio leggendario, unico. D’origine friulana, nato a Roma, conquistò per la Francia un impero e, soprattutto, il rispetto degli africani. Caso unico nel processo di decolonizzazione, ancor oggi la capitale del Congo ex francese, porta il suo nome: Brazzaville.
Ecco, in estrema sintesi, la sua storia. Lasciata l’Italia appena quattordicenne, Pietro fu ammesso all’Accademia navale di Brest e nel 1871 ottenne la prima nomina. Naturalizzato francese, nel 1875 il giovane ufficiale s’imbarcò per l’Africa equatoriale con un compito arduo: esplorare il bacino del Congo e porre le basi per un’eventuale colonizzazione.
Con pochi mezzi, recuperati grazie ai denari di famiglia (i contributi di Parigi furono sempre scarsi), Brazzà s’inoltrò nell’immensità dell’Africa per riapparire tre anni, quattro mesi e 12 giorni più tardi con una documentazione scientifica d’eccezione e un patrimonio di preziosi contatti con i capi locali. Un grande successo personale per il conte, fautore di un colonialismo “umano” e rispettoso delle tradizioni locali, e l’occasione per la Francia di rilanciare il confronto coloniale con la Gran Bretagna e rintuzzare le mire dello spregiudicato Leopoldo II del Belgio, grande sponsor di Stanley, personaggio geniale quanto spietato .
Iniziò così un sorprendente duello a distanza tra il nobile friulano e l’avventuroso statunitense, tra Parigi e Bruxelles, una disfida (geopolitica, economica ma anche culturale) che appassionò i media dell’epoca inquietando non poco le cancellerie occidentali. Del resto la posta in gioco era importante: il dominio del Congo, lo scrigno dell’Africa.
Nel 1880 l’aristocratico tornò nuovamente in Africa e raggiunse la regione dei batéké, l’etnia maggioritaria della regione, instaurando un solido rapporto d’amicizia con Makoko Iloo, il loro capo spirituale e politico. Con la forza degli argomenti (non dei fucili…) Brazzà convinse il sovrano a celebrare il rito della “Sepoltura della Guerra” nel villaggio di N’Gombila, una cerimonia che metteva fine a secoli di guerre tribali. Presenziarono, convocati da Makoko, 40 capi Apfuru e Ubandi e tutti assieme, sotto lo sguardo di Brazzà, innalzarono “l’albero della Pace”. Ancor oggi, ogni primo ottobre, la repubblica congolese ricorda con una festa nazionale quel giuramento lontano.
In quei giorni Brazzà stipulò un “trattato d’amicizia” con cui Makoko pose il suo popolo sotto la protezione di Parigi, sottraendolo alle cupidigie di Leopoldo e alle mene di Stanley. In cambio di una bandiera tricolore, il re indigeno volle donare al nuovo amico un frammento del suo regno: l’area su cui sorgerà Brazzaville.
Un successo pieno che il re del Belgio tentò d’ostacolare con ogni mezzo: al suo rientro, Brazzà venne accolto da una stampa negativa aizzata dai denari leopoldini; il governo parigino traballò, nessuno voleva più riconoscere il trattato con Makoko. Il conte era un forse utopista ma non uno sprovveduto. Dimostrando una certa lungimiranza, Brazzà si fece riprendere dal fotografo di grido Paul Nadar nel suo atelier. Tra tutte le immagini, una rimarrà nel tempo: Pietro vi appariva negli abiti con i quali aveva attraversato l’altipiano dei batéké, a piedi nudi, con la testa avvolta in un pezzo di stoffa, simile ad un esploratore del Sahara. Lo sguardo profondo, penetrante, quasi rimosso dal mondo. Questo ritratto fotografico, esasperatamente romantico, segnò l’inizio del marketing involontario della sua immagine, finendo per ispirare il packaging di saponette, sigarette, cioccolata, formaggi, e altri prodotti. Anche Louis Vuitton, ditta all’epoca artigianale, progettò e realizzò per l’esploratore una brandina da viaggio e un baule, attualmente esposti in una mostra temporanea in Cina e visibili negli altri periodi in un museo parigino.
Pochi mesi dopo, il friulano infilò un’altro successo mediatico. Avvertito della presenza di Stanley a un banchetto all’Hotel Continental di Parigi, si presentò proprio mentre l’americano stava concionando volgarmente sul suo conto. Nell’imbarazzo generale, Pietro fece il suo ingresso a sorpresa e salutò Stanley, rispondendo agli insulti con parole signorili. La stampa parigina aveva il suo eroe.
Il 20 novembre 1882 il parlamento all’unanimità ratificò il trattato e il 15 febbraio Brazzà fu nominato Commissario generale per i territori africani. Un incarico importante, ma per il nostro protagonista, anche l’occasione per una nuova spedizione, questa volta franco-italiana. Forte della sua fama, Brazzà riuscì ad imporre al ministero delle colonie la presenza di una missione scientifica italiana; a capo vi erano il naturalista Giacomo Savorgnan di Brazzà, fratello minore di Pietro, e un comune amico friulano, l’etnologo Attilio Pecile. Parigi acconsentì a condizione che Giacomo si assumesse personalmente la maggior parte delle spese. La missione fu un successo e coronò dieci anni di sforzi e fatiche.
Ma per Brazzà era arrivato il tempo delle responsabilità, del governo. Alla Conferenza di Berlino le potenze avevano risolto la questione congolese regalando a Leopoldo due terzi della regione (lo Stato libero del Congo rimase dominio personale del sovrano sino alla sua morte e fu lasciato in eredità al Belgio) mentre alla Francia fu riconosciuta l’altra porzione, subito affidata a Pietro.
Fedele ai suoi ideali, il conte cercò di organizzare il possedimento secondo le sue “linee di vetta”. Una battaglia perduta. Il complesso industriale e militare parigino — e, per motivi opposti, anche i missionari — non tollerarono a lungo l’esperimento di Brazzà. Un “colonialismo di civiltà”, attento alle tradizioni e agli usi locali, non era compreso nei piani nelle banche di Parigi e, tanto meno, nei sogni dei “piccoli bianchi” catapultati dalla metropoli in Equatore. Sino all’ultimo Pietro cercò d’opporsi agli sfruttatori e al saccheggio delle risorse; nel 1898 venne rimosso dall’incarico.
Nel 1905 i giornali rivelarono gli orrori commessi in Congo dai coloni francesi. L’opinione pubblica rimase turbata, agitata. Il governo improvvisamente si ricordò di Brazzà, l’unico personaggio credibile, e lo incaricò di una missione d’inchiesta. Possibilmente breve. Sebbene malato, da buon ufficiale, Pietro accettò l’incarico ma il suo viaggio si rivelò un calvario. Appena sbarcato s’accorse che sue speranze erano svanite e il Congo, il “suo” Congo, era diventato un inferno.
Durante il viaggio di ritorno, le condizioni di Brazzà peggiorarono e il 14 settembre morì a Dakar. Parigi gli tributò un funerale di Stato ma nel 1908 il parlamento francese votò a maggioranza l’annullamento dei suoi rapporti. Per decenni le sue spoglie riposarono ad Algeri, la sua ultima residenza. Sino al 3 ottobre 2008. Quel giorno, con un ultimo omaggio, gli eredi di Makoko vollero riportare i resti del magnifico friulano sulle sponde del grande fiume. Il Congo.
La memoria di Brazzà
Dopo una lunga amnesia l’Italia — e in particolare il Friuli — si è decisa a ricordare Brazzà. Da qualche anno, con un intreccio fortemente evocativo, l’aeroporto regionale di Ronchi dei Legionari è intestato al conte-esploratore. Sempre in Friuli da tempo operano diverse associazioni che, nel segno di Pietro, cercano di valorizzare lo sforzo dei numerosi (e ancora misconosciuti) esploratori, missionari, geografi e scienziati d’origine locale. A tutti loro l’anno scorso Udine ha dedicato una bella mostra, significativamente intitolata “Hic sunt Leones”, organizzata dal Museo friulano di Storia Naturale. Un successo di pubblico e critica.
Sempre su queste coordinate il piccolo Comune di Fagagna ha voluto onorare un suo figlio avventuroso e irrequieto, Attilio Pecile. Sino al 16 settembre, negli spazi del Palazzo Comunale, sarà infatti possibile ammirare la straordinaria collezione di arte africana — in gran parte conservate al Museo “Pigorini” di Roma — raccolta da Pecile, etnografo e naturalista, durante le spedizioni compiute assieme agli amici Pietro e Giacomo Brazzà nel Congo e in Gabon. Di notevole interesse il poderoso catalogo — “L’Africa di Attilio Pecile — che ripropone la riedizione anastatica di parte del libro “Al Congo con Brazzà” di Elio Zorzi, edito da Garzanti nel 1940, parti del suo diario — a cui s’ispirò anche Joseph Conrad per il suo “Cuore di tenebra” — e la trascrizione di note inedite.
Per gli appassionati un piccolo gioiello che riporta a tempi lontani. Sfogliandolo sembra d’udire l’ultimo avvertimento di Brazzà ai suoi amici: “partite senza armi, senza scorta. Andate soli… Ricordatevi sempre che siete degli intrusi e nessuno vi ha invitato”.
Stefano Mazzotti
“Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento”
Codice Edizioni, Torino.
ppgg. 240, € 16,00
Silvino Gonzato
“Esploratori italiani”
Neri Pozza, Vicenza
Ppgg. 267, € 16,50
“L’Africa di Attilio Pecile”
Forum Editrice, Udine
ppgg. 632, € 32,00
Interessante. Non conoscevo la materia, in particolar modo vista dall’Italia. Voglio approfondire e mi documenterò.