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Eugenio Di Rienzo/ Le colonie di Stalin e la tragedia dei «pionieri» forzati

di Redazione
12 Novembre 2021
in Rassegna Stampa
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Eugenio Di Rienzo/ Le colonie di Stalin e la tragedia dei «pionieri» forzati
       

Pochi lettori italiani conoscono l’allucinante episodio del trasferimento forzato, nel 1933, di migliaia cittadini sovietici reputati «socialmente nocivi» nel Mar Bianco, in una delle isole dell’arcipelago delle Soloveckie, dove, privi di alloggio e di mezzi di sussistenza, gli sventurati, alla fine, si diedero alla fuga, si dispersero nelle campagne, dettero l’assalto alle case dei villaggi vicini, divennero ladri, assassini, a volte dediti a pratiche di cannibalismo e quasi tutti morirono di morte per fame, mentre i pochi sopravvissuti si uccisero a vicenda o furono sommariamente giustiziati.

Che questa vicenda non abbia costituito un semplice caso isolato, che non sia stata generata semplicemente da una tendenza sadica e criminale o dalla «banalità del male» postasi al servizio di un deliberato programma di sterminio di massa, ma che, invece, abbia fatto parte di un organico progetto destinato a realizzare gli ideali del socialismo ce lo hanno rivelato, con larghissima documentazione inedita, due accuratissimi studi che non sono stati adeguatamente recepiti dal pubblico italiano: Thomas Kinzy, Gulag. Life and Death inside the Soviet Concentration camps (Firefley, 2004) e Lynne Viola, The Unknow Gulag. The Lost World of Stalin’Special Settlements (Oxford University Press, 2007), come è accaduto anche per il saggio di Nicolas Werth, L’isola dei cannibali, tradotto da Corbaccio Editore e recentemente ristampato.

Nel 1930, Fëdor Eikhams, un pluridecorato funzionario del Commissariato del Popolo per gli Affari Interni (NKVD), inviava all’amministrazione centrale un dettagliato rapporto, nel quale si faceva osservare che l’Urss possedeva a ridosso dei suoi confini orientali e settentrionali sterminate regioni, scarsamente popolate ma abbondantemente provvisti di ogni tipo di ricchezza naturale: carbone, rame, alluminio, petrolio, oro e argento, pellicce, pesce, terre da bonificare e coltivare. Tali risorse potevano e dovevano essere messe a profitto grazie alla creazione di numerosi insediamenti, che in breve sarebbero divenute altrettante città ideali, centri di un’industria e di un’agricoltura completamente socializzata, tramontate in palestre di educazione al comunismo. Sfruttare la frontiera siberiana, continuava il rapporto, richiedeva fede ideologica, abilità tecnica, ma soprattutto un enorme afflusso di forza lavoro. Nessuna istituzione civile poteva portare a termine questo titanico sforzo, che, invece, poteva essere compiuto modificando la struttura dei Gulag, costruita sulla base di una «rigida disciplina militare» e in grado di contare su di «una larga flessibilità economica e una sperimentata esperienza nel superare ostacoli di ogni tipo».

Il progetto incontrò il gradimento del direttore del NKVD, Genrikh Grigoryevič Yagoda, soprattutto per il suo retroterra ideologico. Secondo Yagoda infatti, «prigioni e campi di concentramento non erano altro che inattuali vestigia del passato borghese», mentre il nuovo sistema penale sovietico doveva impegnarsi a conquistare nuove terre e nuovi risorse, grazie all’utilizzazione di decine di migliaia di detenuti, che si sarebbero resi del tutto autosufficienti grazie alla loro attività, costruendo le loro abitazioni, coltivando i campi per il loro sostentamento e lavorando, allo stesso tempo, nei nuovi centri minerari.

Il lavoro, la possibilità di riscattarsi dal loro passato di «nemici del popolo», le nuove possibilità offerte da una natura incontaminata e generosa avrebbero vincolato i prigionieri alle loro residenze, senza bisogno di catene, sbarre, cancelli, sorveglianza. In pochi anni, gli insediamenti si sarebbero trasformate in «città proletarie» assolutamente autonome, che avrebbero mostrato orgogliosamente al mondo il «destino manifesto» della patria del socialismo.

Alle parole di Jagoda, Eikhams faceva seguire i fatti, impiantando, appunto, nell’isola del Mar Bianco, situata appena sotto la linea del Circolo Polare Artico, una prima colonia composta di forzati e guardiani, accompagnata da un team di chimici e geologi. L’iniziativa parve, dapprima, dare rapidamente i frutti sperati. I nuovi arrivati fraternizzarono tra di loro e con i pochi nativi. I prigionieri erano privi di ogni tipo di sorveglianza. Lavoravano, ogni giorno, otto ore nel sottosuolo o all’aperto, rimanendo poi liberi di procurarsi liberamente alimenti in grado di integrare la dieta regolamentare. Battute di caccia venivano fraternamente organizzate tra detenuti e custodi, gli uni e gli altri egualmente armati. Nelle ore di riposo si tenevano pubbliche letture di classici e veniva messa in piedi la redazione di un piccolo giornale, a cui aveva fatto seguito la nascita di piccoli circoli culturali dove era possibile «dibattere la dottrina del marxismo-leninismo e illustrare le sue future conquiste progressive».

Come si è detto questo esperimento di ingegneria sociale, alla fine, fallì però miseramente. E, riprodotto su più larga scala provocò un’immane catastrofe umanitaria, quando quasi mezzo di milioni di prigionieri politici e comuni vennero deportati nelle regioni delle Russia orientale e settentrionale, in Siberia e nel Kazakistan, senza trovare in quei luoghi nessuna struttura che permettesse loro di portare a termine il loro compito e di sopravvivere. Stremati dagli infernali ritmi di lavoro, dall’asprezza del clima, dall’assoluta mancanza di cure mediche la maggior parte di essi morì per denutrizione e per malattia.

Numerosi gruppi di sopravvissuti scelsero la via della fuga negli immensi spazi dell’Urss, trasformandosi in bande criminali organizzate, attive fino alle città di Mosca e Leningrado e sulle coste del Mar Nero. Le autorità scateneranno contro gli ex forzati colonizzatori, che si erano ormai trasformati in una vera e propria minaccia all’ordine sociale, una gigantesca caccia all’uomo che non sortì, comunque, tutti gli effetti desiderati. Fino alla fine degli anni Trenta, le città, le ferrovie, i porti, le strade del colosso sovietico vennero infestate da numerosi casi di banditismo, che non fu possibile reprimere completamente neanche con la violenza della spietata dittatura staliniana. Da quel momento in poi i cancelli dei Gulag si richiuderanno ermeticamente dietro le spalle di dissidenti, delinquenti comuni, vittime innocenti delle tantissime purghe di Stato. Intanto nelle stanze blindate del Cremlino e del Politburo si accumulavano rapporti e memorie che cercavano di investigare i motivi di un così colossale insuccesso, il quale, in realtà era solo la metafora della disfatta della pianificata economia sovietica nel suo complesso, dove la generosa utopia di liberare l’uomo dalla schiavitù dello sfruttamento capitalistico aveva prodotto, per contrappasso, in tutta la Russia, un unico, sterminato universo concentrazionario, un immenso ergastolo a cielo aperto dove si era persa ogni distinzione tra lavoro libero e lavoro forzato.

Eugenio Di Rienzo, 2 novembre 2021, Corriere della Sera

Tags: comunismoEugenio Di RienzogulagstoriaURSS
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