A Parigi, ma anche nel resto della Francia, le librerie sono state prese d’assalto da tre giorni per acquistare copie dell’ultimo romanzo (romanzo?) di Michel Houellebecq, Serotonina, che uscirà in Italia il 10 gennaio. Non è solo un “caso” letterario: è un sintomo. Il sintomo del malessere che trova nell’opera di uno scrittore l’esplicitazione chiara e confortante per chi ha deciso di schierarsi da due mesi, ormai, anche violentemente, contro Emmanuel Macron.
Il libro era in gestazione da tempo, molto prima che i gilets jaunes si manifestassero improvvisamente scuotendo le fondamenta della Quinta Repubblica, perché è di questo che si tratta. E Houellebecq aveva previsto, non diversamente da altri saggisti, analisti ed osservatori, quel che darebbe accaduto. Ma quando un narratore incontra l’anima del popolo, spontaneamente, è inevitabile che la sua opera assurga a manifesto di una rivolta – e chi la chiama in un’altra maniera o non ha capito nulla o intende minimizzare scioccamente e pericolosamente il disagio francese – per quanti non si limitano più a contestare la transizione ecologica à la Macron o la sua ambiziosa grandeur a detrimento del ceto medio, ma mettono in discussione le politiche iperliberiste del “presidente dei ricchi” costretto a sforare i parametri europei per accontentare la piazza che non si accontenta affatto. Un capolavoro: la Francia impoverisce, la rabbia cresce, il governo consapevolmente innalza il debito pubblico che gli stessi manifestanti dovranno poi pagare.
Di fronte ad uno scempio del genere, politico e finanziario, si urla a Parigi e nei maggiori centri del Paese: “Macron démission”. È la prima volta che accade a nostra memoria, al di là di sporadiche ed estemporanee manifestazioni perlopiù studentesche e sindacali del passato remoto. L’intangibilità della presidenza-monarchica è stata abbattuta: la Quinta Repubblica è per questo virtualmente in crisi. E Houellebecq ha immaginato lo “scontro” tra la Francia istituzionale e delle élites finanziarie ed il contadino Aymeric, figlio della Francia profonda, che osa sfidare l’establishment, diventando protagonista dei tafferugli con la polizia e dunque lanciandosi in una sfida al potere costituito. Lampi di violenza diventano bagliori di fuochi tutt’altro che fatui; incendi veri e propri si propagano dalla campagne francesi alle grandi città. Aymeric è il simbolo cosciente di una rivolta contro “l’Unione europea grandissima stronza”, originata dalle “quote latte”, piuttosto che dalla protesta per l’aumento dei carburanti agricoli come è stato nella realtà. Ma la circostanza cambia poco la natura dell’incontro dello scrittore con i gilets jaunes. Ed il senso del malessere viene suggellato da un funerale, a cui i più restano indifferenti, di una famiglia francese decimata dagli scontri con la polizia. Uno scenario tragico. Una finzione preoccupante.
Come tragica e preoccupante è stata l’ottava messa in scena lo scorso fine settimana della riapparizione dei manifestanti, più numerosi (sia pure di poco) rispetto alla penultima volta, ma più violenti. La richiesta è stata unitaria e semplice: Macron se ne deve andare. Elezioni presidenziali subito. Scioglimento dell’Assemblea nazionale. Non è rivendicazionismo occasionale tutto questo, ma aggressione politica alle istituzioni simboleggiata dallo sfondamento con una ruspa del portone del ministero dei Rapporti con il Parlamento: mai si era arrivati a tanto.
La Rive Gauche è stato il teatro delle violenze, poco lontano dal
presuntuoso monumento a Danton. I simboli contano in Francia. Ed in particolare
a Parigi. Il 1789 è lontano e qualsivoglia assimilazione, pur tentata,
suonerebbe grottesca. Ma che non siano assolutamente grotteschi o estemporanei
i sommovimenti degli ultimi due mesi, lo testimoniano la continuità e
l’organizzazione delle manifestazioni. Insomma, non ci si alza al mattino di
sabato solitamente, s’indossa un giubbotto giallo e si va va in strada a fare
casino. C’è una regia, un coordinamento, una strategia. Soprattutto è maturata
la consapevolezza che le ricette macroniane sono contro la Francia: questo è
ciò che pensano coloro che immaginano una rivolta che dovrebbe terminare con la
resa del presidente e di chi lo sostiene. Ma è credibile, o solo ipotizzabile,
uno scenario di questo tipo?
Assolutamente no, almeno per ora. Almeno fino a quando il livello dello scontro
non diventerà insostenibile. Fino a giorno, cioè, in cui lo Stato ed il popolo
non entreranno in conflitto insanabile. Fantapolitica? Fino ad un certo punto.
Meno fantasiosa, comunque, è la prospettiva che il movimento diventi
qualcosa che assomigli ad un partito politico, e già in vista delle elezioni
europee di maggio. I primi leader s’affacciano. Cominciano ad essere
conosciuti. La polizia li tiene d’occhio. Qualche volta li ferma per poche ore
o per pochi giorni. I giornali tratteggiano le loro scarne biografie. Insomma,
irrompono sulla scena pubblica, mentre fino a poco fa si trinceravano dietro ad
un computer, animavano il popolo del web, si esibivano sui social network.
Non sono di destra, né di sinistra. O meglio: sono di destra e di sinistra e da
quei mondi provengono ovviamente, ma senza far pesare le origini ideologiche
(quando ce l’hanno), né le opzioni elettorali recenti. Semplicemente non
vogliono essere schiacciati dal carovita, dall’insopportabile pressione
fiscale, dalle imposizioni europee che minano soprattutto l’agricoltura,
dall’insicurezza connessa al tema dell’immigrazione.

I gilets jaunes hanno una
prospettiva. Che né la politica, né gli analisti liberal-democratici hanno
saputo vedere agli esordi del movimento per il semplice fatto che l’avvento di
Macron è come se avesse sterilizzato la società francese mettendo fuori causa
la destra e la sinistra, la Le Pen e Mélenchon, i vecchi partiti e i decadenti
sindacati. E nel vuoto En Marche!
avrebbe potuto e dovuto garantire il nuovo ordine fondato su ambizioni fragili
e su sfruttamento inevitabile del ceto medio: la fine della borghesia non è mai
indolore, in Francia avrebbero dovuto ricordarlo. Quando si immagina che possa
accadere, ci pensa il popolo, ormai borghese a tutti gli effetti (è la sola
classe esistente), a difendere con i mezzi che ha la sua stessa sopravvivenza.
Per questo non si invocano mezze misure: le dimissioni di Macron sono il punto
d’arrivo per la ripartenza. E, dunque, se l’obiettivo è questo, il movimento
non potrà che avere le fattezze di un’organizzazione politica.
Organizzazione che non faticherà a trovare imitatori nel resto d’Europa.
Sia pure, con ragioni e modalità diverse, negli ultimi mesi si è andato diffondendo un moto di indignazione prossimo a quello francese, in proporzioni minori, in Belgio, in Portogallo, in Spagna, persino in Svezia dove il tema dell’immigrazione ha tenuto banco pericolosamente. Il sostegno ai partiti tradizionali crolla ovunque. In Spagna ne nascono di nuovi, come Vox che, se si vuol semplificare, può essere definito di destra non tradizionale, ma radicale. La politica contro il mondialismo e l’omologazione culturale è il tratto distintivo. La globalizzazione, ammettono perfino i liberisti più coriacei, è stata un’occasione mancata della quale hanno profittato le élites economico-finanziarie, utilizzando l’arma dell’austerity, per dominare popoli sempre più impoveriti e indotti a soddisfare nuove necessità: per di più società aperte e multiculturalismo registrano il loro fallimento di fronte a chi invoca presidi identitari che si trasformano in vere e proprie richieste di cambio di passo come in Francia.
L’UNGHERIA DI ORBAN
Ma anche laddove un processo di cambiamento in questo senso sembra aver
ottenuto successo, si registra una sorta di rigetto. L’Ungheria di Viktor Orban, per esempio, è teatro
in questi giorni di manifestazioni popolari scaturite alla “legge sullo
schiavismo”, come è stata definita la normativa che pretende di innalzare a 400
le ore di straordinario per non assumere soprattutto nei comparti statali.
Dieci anni di governo “sovranista” non hanno “silenziato” il politico che da
giovane si era imposto come un riferimento anticomunista rischiando la vita.
Quindicimila persone a Budapest hanno dato vita ad un corteo, giorni fa, che si
è fermato davanti al Parlamento. Vi hanno preso parte tutte le formazioni
politiche, dai Verdi all’estrema destra identitaria, oltre a socialisti e
liberali. Orban è contestato nel suo Paese, dominato con metodi non sempre
ortodossi, come mai prima. Oltre alla legge “schiavista”, della quale i
manifestanti hanno reclamato l’abrogazione, è stata chiesta maggiore
indipendenza ed obiettività dei media pubblici apertamente schierati su
posizioni filo-governative e diretti verso un’ulteriore concentrazione in
un’associazione costituita da editori e magnati vicini ad Orban.
Dunque, se il problema della Francia è l’impoverimento della classe media, in
Ungheria la questione tocca la libertà di espressione ed il lavoro. Orban è
stato visto come il fautore delle ragioni del popolo contro le élites; ma si
dimentica spesso, quando valutazioni del genere emergono, che chi contesta
l’establishment necessariamente lo sostituisce. Non occorre approfondire gli
studi di Mosca, Pareto e Michels per toccare con mano una realtà tanto semplice
e chiara.
LO SCONTENTO IN ROMANIA E SLOVACCHIA
Ma è anche la corruzione a seminare scontento in Europa. Uno dei casi più
clamorosi riguarda la Romania dove fin dallo scorso agosto migliaia di
manifestanti hanno dato vita a proteste contro il degrado della classe politica
che si comporta, secondo alcuni, come il clan di Ceausescu. Preso di mira è
soprattutto il Partito socialdemocratico al potere accusato oltre che di
corruzione anche di voler indebolire la magistratura
Da quando ha vinto le elezioni, nel 2017, ha cercato di depenalizzare numerosi
reati relativi alla corruzione, tanto che l’Unione europea considera la Romania
uno dei paesi più corrotti: Liviu Dragnea, leader del Partito
socialdemocratico, è stato condannato a 3 anni e mezzo di reclusione per abuso
di potere, una decisione per la quale ha fatto ricorso. Ricordiamo che quando
il suo partito vinse le elezioni, Dragnea non aveva potuto assumere la carica
di primo ministro a causa di una precedente condanna per brogli.
Nella vicina Slovacchia sempre contro la corruzione della classe politica la polemica è costantemente accesa. Poche settimane fa migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione di protesta a Bratislava. “L’aumento degli standard di vita e la disoccupazione in calo non bastano più”, ha notato Grigorij Meseznikov, direttore dell’Institute for Public Affairs di Bratislava. “Queste persone vogliono una società migliore in cui venga rispettato lo stato di diritto”.
CHE ARIA TIRA IN POLONIA
Anche in Polonia si respira un’aria malsana. Antichi risentimenti si
sovrappongo a nuove emergenze. La diffidenza nei confronti dell’Unione europea
è crescente. Come in tutti i Paesi del gruppo di Viségrad e nel resto del
centro-est dell´Europa.
A Bruxelles, piuttosto che limitarsi a condannare genericamente ciò che accade
da quelle parti, farebbero bene a chiedersi quali sono le ragioni della mancata
integrazione. Ragioni che stanno diventando prevalenti in buona parte
dell’Europa, mai così disgregata, mai così in pericolo.