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Home Penna Pellicola Palco

Fedele a me stesso. Il lungo racconto di Clint Eastwood

di Tommaso de Brabant
25 Aprile 2020
in Penna Pellicola Palco
0
       

 

A fine maggio ricorrerà una data importantissima per la cultura mondiale: il 90imo compleanno di Clint Eastwood. In vista di ciò, Minimum Fax ha appena pubblicato una serie di interviste: “Fedele a me stesso. Interviste 1971 – 2011” è il titolo italiano per “Clint Eastwood: Interviews”, raccolta curata (in versione originale, per la University Press of Mississippi) da Kathie Coblentz e Robert E. Kapsis (e qui tradotta da Alice Casarini).

Dall’esordio registico col thriller “Brivido nella notte” alle riprese di “J. Edgar” con Di Caprio nei panni di Hoover, fino al progetto (poi abbandonato) d’un remake di “A Star Is Born” con Beyoncé protagonista: ventisei colloqui con diversi giornalisti.

Era già chiaro nel 1971, quando Eastwood, quarantunenne, debuttava da regista d’un film tutto suo (ma aveva già realizzato trailer per il telefilm “Gli uomini nella prateria”, e col benestare di Don Siegel aveva diretto, in “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!”, la scena in cui “Dirty Harry” salva, non proprio delicatamente, un aspirante suicida), ossia “Brivido nella notte”, che si trattava di molto più d’un attore come tanti.

Già nelle interviste riguardanti i film da regista immediatamente successivi (“Breezy”, il primo in cui non recita, e “Assassinio sull’Eiger”; ma ancor più “Lo straniero senza nome”, “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, “L’uomo nel mirino” e “Bronco Billy”, il primo film degli anni ’80 e dell’Eastwood cinquantenne) si ha a che fare con un cineasta serissimo e in costante crescita, intelligentissimo e perennemente impegnato a imparare.

Negli anni ’70 era già evidente, dal risultato finale dei film e dalle riflessioni esternate nelle interviste, che Eastwood era già quarantenne un personaggio ben diverso, assai più profondo e colto dell’immagine di macho violento e forcaiolo entro il quale una critica tanto superficiale e disastrosa quanto pretenziosa e influente quale Pauline Kael (una capace di scrivere una frase come “non c’è nulla di male nell’interpretazione di Donald Sutherland in La Cruna dell’Ago, però è orrenda”, o di insultare in continuazione John Milius salvo prostrarsi incontrandolo a una festa) pretendeva di rinchiuderlo – banalizzazione dal quale la recezione e comprensione di Eastwood è stata danneggiata, fino agli anni Duemila, anche in Italia (per colpa di gente come Tullio Kezich; Morando Morandini invece negli anni Ottanta subodorava qualcosa, ma non ci arrivava del tutto).

Che Clint Eastwood sia un regista, un artista grandissimo è diventato un fatto riconosciuto, in Italia, soltanto con “Mystic River”, che è del 2003 – tre anni prima ci si scandalizzava che la Mostra di Venezia celebrasse i 70 anni di Clint presentando fuori concorso “Space Cowboys” – non un’opera d’arte, ma un film simpatico: il solito criticume, il pessimo culturame italiano ancora berciava contro “lo sbirro”, “il fascista”, senza rendersi conto che Eastwood si era lasciato alle spalle da un pezzo l’ispettore Callaghan (e senza rendersi conto che di questo personaggio non avevano capito un tubo): era necessario che due liberal come Sean Penn e Tim Robbins accettassero di essere diretti dal “destro” Eastwood, perché gli avanzi del ’68 si rendessero conto che quando, nel 1995, Meryl Streep si era detta schifata d’aver dovuto fare “I ponti di Madison County” con un fascistone improvvisatosi romanticone, anziché col carinissimo e correttissimo Robert Redford (uno il cui passaggio da attore a regista era stato acclamato aprioristicamente, in forza del suo essere “di sinistra”; salvo dover constatare che meglio di robette come “Gente comune” non ha mai saputo fare), aveva soltanto dato fiato a una delle sue tantissime crisi isteriche (una volta è Eastwood, un’altra è Trump, speriamo che Polanski le stia lontano).

 

Gli Stati Uniti non sono un modello per nulla, ma fino a qualche anno fa di cinema si intendevano: lo sapevano fare e lo sapevano guardare, tanto da riuscire a far bene anche un mestiere vile come quello del critico.

Leggendo, in italiano, gli articoli sembra strano: ma non c’è nulla di assurdo nella deferenza con cui, già negli anni ’70, gli intervistatori statunitensi si rivolgono a Eastwood. Gli elementi c’erano: la nitidezza col quale presentava già allora la sua poetica; l’etica del lavoro (il contenimento dei costi e il rispetto per i finanziatori, la cortesia nei confronti dei collaboratori); l’attenzione alla sceneggiatura (pur non avendone mai firmata alcuna, Eastwood non è solo “metteur en scene”: ha sempre partecipato al lavoro di scrittura, e ciò lo rende pienamente Autore); e la maestria fotografica (interessantissime, per i cultori di tecnica cinematografica, le sue considerazioni – soprattutto nelle interviste su “Lo straniero senza nome”, “Il texano dagli occhi di ghiaccio” e “Bronco Billy” – su ogni aspetto della direzione della fotografia, dalle inquadrature alle luci: una visione poetica riflessa in una competenza approfondita e totale); l’ampiezza di vedute (sin da subito, non esclude di dirigere e interpretare film che non coincidano con le sue opinioni politiche); la coscienza sociale e il radicamento nella cultura, nella vita americana (i tour a zonzo per cercare la location più adatta a ogni scena, e non solo).

Non manca lo humour: Dio “Capodirettore” della fotografia, e un rimpianto: la sua carriera era andata bene per quattordici anni… poi, ha cominciato a parlare.

Così come non manca una delle più importanti professioni di fede artistica di Eastwood: il rispetto per il pubblico e per la sua intelligenza, costantemente mostrata col rifiuto di fornire troppi elementi sulle vite dei personaggi, e persino sul finale dei film, per lasciare lo spettatore libero d’immaginare cosa sia successo prima del film, e quali scelte e percorsi intraprenderanno i personaggi poi.

Mancano le interviste degli ultimi nove anni: il volume si ferma al 2011, alle riprese di “J. Edgar”. Una lacuna sopportabile, dato che gli anni “scoperti” sono parte di quel decennio (2009-2018) in cui, alla meraviglia di “Gran Torino”, seguiva un lotto di film realizzati solo per la smania lavorativa del gigante californiano (“Invictus”, “Hereafter”, “J. Edgar”; poi “Jersey Boys”, “American Sniper”, “Sully”, “Ore 15:17”); Eastwood è però poi tornato, come abbiamo scritto, a livelli altissimi nei due anni scorsi, con “Richard Jewell” e soprattutto con “The Mule”.

“Fedele a me stesso” è una bella celebrazione di quarant’anni di una carriera che, avvicinandosi il 90imo compleanno della “piccola sequoia” (Eastwood adora rammentare il nomignolo che gli fu attribuito, in virtù dell’imponenza fisica e dei trascorsi da boscaiolo, a uno dei suoi primi provini), non smette di riservare sorprese.

 

Clint Eastwood

Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011

 

A cura di Kathie Coblenz e Robert E. Kapsis

Traduzione di Alice Casarini

Minimum Fax, Roma, ottobre 2019

490 ppgg., 20 euro

Tags: cinemaClint Eastwood
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