Napoli 1767. Partito il padre Carlo per il trono di Spagna, ascese al trono il giovanissimo Ferdinando, un personaggio molto maltrattato dagli storici – per molti solo il “re lazzarone”, una caricatura di sovrano … – ma uomo non privo d’interesse. Anzi. Una volta svezzato e cresciuto, sotto l’occhiuta reggenza del toscano Bernardo Tanucci, il padre ormai madrileno decise il suo matrimonio con la volitiva Maria Carolina d’Asburgo-Lorena. Un matrimonio combinato (ovviamente…) ma anche un’inversione di tendenza per un regno incapace allora persino di difendere le sue coste, le sue navi, i suoi commerci. La sua sovranità.
Concluso il periodo di re Carlo, nel periodo della Reggenza la marina napoletana era stata trascurata e i suoi bilanci si erano ridotti drasticamente penalizzandone, con gran soddisfazione dei corsari barbareschi nuovamente all’offensiva, l’operatività e l’efficacia. Secondo la narrazione dominante la regina, esasperata dalle scorrerie piratesche e dal perdurante spagnolismo della corte, convinse il pigro consorte ad avviare una nuova politica mediterranea, prodromica ad un riorientamento delle alleanze. Le cose, come vedremo furono un po’ più complicate e complesse. Ma andiamo per ordine.
A sigillo del cambio di strategia Maria Carolina chiese al fratello Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, l’invio a Napoli di John Francis Acton, un oriundo inglese allora comandante della appena costituita marina austro-toscana. Una scelta azzeccata. Sotto la valida guida di Acton i legni granducali avevano attaccato Tunisi nel ’73 e partecipato con valore nel ’75 alla spedizione spagnola-portoghese contro Algeri. Successi importanti ma troppo costosi per lo squattrinato Asburgo-Lorena che, perso l’appoggio di Vienna, non solo accettò l’offerta della sorella ma, assieme al comandante, cedette a Napoli anche le sue navi. Giunto nel ’79 nella capitale partenopea Acton — energico organizzatore, politico puntuto e, dunque, poco amato dai cortigiani — persuase Ferdinando, sempre più insofferente dello sguardo paterno, della necessità di una robusta flotta d’altura (una blue-water navy secondo i parametri attuali).
Ottenuto l’assenso reale, l’ammiraglio riordinò su due squadre la flotta — vascelli e sciabecchi — e s’impegnò in un vasto piano di rilancio della forza navale: il cantiere di Napoli riprese l’attività varando in un triennio (1782-84) tre brigantini, 5 galeotte, 4 sciabecchi e due fregate. Ma il ministro volle anche un nuovo arsenale e in grado di costruire vascelli. Come sede fu scelta Castellamare di Stabia, sia perché disponeva di maestranze specializzate, sia per la prossimità dei boschi demaniali del monte Faito e dei monti Lattari. I lavori iniziarono il 20 giugno 1783 e il primo varo (corvetta Stabia) fu effettuato il 10 gennaio 1786. L’orgoglio dell’Arsenale furono però i cinque vascelli, “Partenope”, “Ruggero”, “Tancredi”, “Sannita” e “Archimede”, varati nel 1786, 1788, 1789, 1792 e 1795. Progettati dall’ingegnere Imbert, dislocavano 4.500 tonnellate ed erano armati con 74 pezzi.
Diventato segretario di Stato Acton aumentò considerevolmente le spese per la marina e si preoccupò della formazione degli allievi dell’Accademia, migliorando i corsi e allargando la base sociale; scoppiata la guerra d’indipendenza americana, inviò gruppi di giovani ufficiali a compiere lunghi stage sulle navi delle nazioni belligeranti. Per il tempo una novità assoluta. Crebbe significativamente anche il comparto mercantile: nel 1786 si contavano 1.047 vascelli per 132mila tonnellate, numeri doppi rispetto a Venezia e a quelli delle flotte di Austria, Portogallo e Lega anseatica.
Sempre all’opera del ministro si deve la pubblicazione del primo “Atlante marittimo del regno”, un prezioso lavoro scientifico del cartografo padovano Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, e la redazione, a cura del giurista procidano Michele de Jorio, del poderoso “Codice marittimo”. Sotto la supervisione di de Jorio venne anche promulgato, il 14 aprile 1790, il “Codice corallino” o “Regolamento per la pesca dei coralli e della Real compagnia del corallo”, una serie di 17 “titoli” miranti a normare diritti, doveri e tutele della corporazione dei pescatori di corallo di Torre del Greco.
Tante idee, tante spese, tanto lavoro e ottimi risultati. Tutto apparentemente merito di Carolina e di Acton. Questa ad oggi è la vulgata degli storici. Eppure, come ben spiega Emilio Gin nel suo ottimo quanto innovativo libro Ferdinando IV di Borbone. Il regno di Napoli e il Grande gioco del Mediterraneo (Rubbettino editore), il deciso recupero della statualità napoletana in campo marittimo (e non solo) si deve invece a Ferdinando, il tanto bistrattato Borbone. Recuperando, scartabellando ed esaminando innumerevoli documenti, diari, numeri — una fatica immane … — il ricercatore ha rivisto e ridefinito, nella giusta luce, il “re Lazzarone”. Ferdinando, il donnaiolo, l’atrabile, la macchietta coronata.
Eppure, fu lui, al netto della sua ostentata pigrizia (uno schermo, come suppone Gin, per deviare su moglie e ministro incombenze fastidiose e ribadire intatte le proprie prerogative?), ad immaginare per il suo Paese un destino da media potenza mediterranea forgiando uno strumento militare credibile e un braccio mercantile e commerciale ragguardevole. Fu lui, con buona pace di Croce e degli altri dotti, a costruire un disegno talassocratico per il Meridione d’Italia da troppo tempo interrato e terragno. Fu Ferdinando, sovrano a sprazzi navalista ed intermittente intelligenza geopolitica, a costruire una fruttuosa e spregiudicata quanto levantina neutralità attiva per il maggiore stato regionale italico. Con navi, porti e marinai. Sul mare.
Non a caso il Borbone — ispirandosi alla celebre serie Port de France commissionata da Luigi XV a Claude Joseph Vernet — affidò al pittore di corte Jacob Philipp Hackert la realizzazione di un ciclo di vedute degli scali dello Stato, diciassette porti compresi tra Campania, Sicilia e Puglia. La preziosa galleria è oggi esposta (con l’eccezione dell’approdo di Castellamare, finito misteriosamente in una collezione privata) nella reggia di Caserta.
Perdurante il conflitto con le reggenze nordafricane — come in passato armate, in cambio del loro libero traffico mercantile, da inglesi, francesi e olandesi — l’irrobustita squadra napoletana partecipò nel 1784 alla spedizione spagnola contro Algeri ma il rifiuto di Madrid a coinvolgere il regno nelle trattative di pace con il bey segnò il definitivo allontanamento di Napoli dall’orbita iberica.
Nel tentativo, parzialmente riuscito, di preservare al regno libertà di manovra e relativa autonomia, Ferdinando iniziò un cauto avvicinamento in chiave anti francese ad Austria e, successivamente, all’Inghilterra e nel 1787, rovesciando i vecchi schemi diplomatici, strinse un’inattesa ma proficua intesa commerciale con la Russia, nuovo attore sulla scena mediterranea.
Insomma, un attivismo internazionale a 360 gradi che proiettò, grazie alla sua componente navale, la Napoli tardo settecentesca sulla scena mediterranea e continentale. Nel frattempo i marinai borbonici continuarono a proteggere dai barbareschi litorali e navigazione commerciale. Un impegno gravoso affrontato con crescente professionalità e spirito di corpo. Poi arrivò Napoleone Bonaparte, figlio di un temporale epocale, e flotta e regno finirono in cenere. Ma questa è un’altra storia.