Parliamo di Taranto. Dell’Ilva. Dell’industria italiana. Ritengo gravissimo l’annuncio dato dal gruppo siderurgico Riva, che a seguito del sequestro da parte della magistratura dei conti correnti della società, ha deciso la chiusura di sette siti produttivi. Una decisione questa, che non solo lascia senza lavoro ben 1400 addetti del gruppo ma che avrà pesanti ripercussioni anche sulle tante aziende che operano nell’indotto. In particolare, ai fornitori del gruppo che si trovano nella impossibilità di cartolizzare le fatture relative ai prodotti già forniti. È una preoccupazione condivisa — finalmente un segnale forte dall’ovattato palazzo di Confindustria — anche dalla rappresentanza istituzionale del mondo imprenditoriale nazionale: Confindustria ha espresso i suoi timori per il blocco delle attività produttive in una fase già particolarmente delicata per la nostra economia.
Va sottolineato, una volta di più, che Taranto, l’Ilva non sono un problema locale. Un mero processo. È molto di più. Come ha osservato lucidamente sul Corriere della Sera Angelo Panebianco, «non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perchè sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perchè sia possibile distruggere una cruciale fonte di richezza. La vicenda dell’Ilva doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare la bonifica e la salvaguardia di una indistria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anzichè procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza i giudici e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo».
Parole durissime e chiare. Che condivido. Ma, soprattutto, riprendo e rilancio la chiusura dell’editoriale di Panebianco sulla diffusione «di una particolare sindrome, un orientamento antiindustriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perchè tratta l’industria in quanto minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare l’inquinamento l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti- industriale. Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato percorsi meno distruttivi per l’industria italiana».
Su queste coordinate, per queste ragioni ho presentato una interrogazione al ministro delle Attività produttive e al ministro del Lavoro per sapere quali immediati provvedimenti il governo intende assumere al fine di tutelare sia l’attività industriale che i tanti lavoratori colpiti. La “decrescita infelice” non mi piace. Non ci piace.