Milano, giovedì 7 aprile, il fattaccio: un consigliere comunale del PD (uno dei democratici che, pur di dar contro al “dittatore Putin”, ha citato Amos Oz per inveire contro i pacifisti che non hanno mai liberato nessuno: meno male che ci sono loro, i liberatori guerrafondai muniti di bandierine arcobaleno), seguito da un gruppetto di facce tutt’altro che sveglie, ha fumato della marijuana in pubblico, di fronte a Palazzo Marino (dove dovrebbe lavorare, concetto sconosciuto a tante manine levigate; magari per il bene pubblico, altra idea aliena alla nuova sinistra liberale e iperliberista). Lo ha fatto per tre motivi: mancanza d’idee; protesta contro la bocciatura, da parte della Corte Costituzionale, del quesito referendario per la legalizzazione dell’uso personale di cannabis; ricerca di visibilità – per quest’ultimo, non ne facciamo il nome: tanto, il favore di fargli pubblicità glielo ha già fatto Salvini.
Il problema ha infatti due facce. Una, è il problema in sé: i sostenitori della legalizzazione della droga. L’altra, è la reazione: o meglio, la mancanza d’una reazione adeguata.
Lo stesso giorno, il Corriere della Sera ha pubblicato una intervista a Rosanna Lambertucci, che tra gli altri episodi e gli altri personaggi ricordava quando ospitò nel suo programma Rita Levi Montalcini, che parlò del morbo di Alzheimer, sino ad allora un tabù in televisione. L’eminente scienziata predisse: diventerà una delle malattie dominanti. È proprio così, ma non soltanto – come predicano i liberalissimi cultori della morte – per l’allungamento della speranza di vita, per l’invecchiamento della popolazione. Lo è soprattutto per il dilagare di comportamenti che favoriscono l’insorgere della patologia: per la diffusione, vastissima, di strumenti e abitudini atti a deteriorare il cervello (comunemente identificato con la perdita di memoria, l’Alzheimer è, molto semplicemente, l’atrofizzazione dei neuroni).
Sì, ci saranno sempre più malati di Alzheimer: e fra i tanti motivi – dall’impigrimento dovuto alla facilitazione delle attività quotidiane (operazioni matematiche semplicissime fatte con la calcolatrice, percorsi cercati con Google Maps, azioni domestiche affidate al comando vocale) alla riduzione meno che elementare del linguaggio; dalla concentrazione frammentata dalle continue notifiche sullo smartphone all’inquinamento elettromagnetico, e a quello del cibo raffinato – ci sarà, c’è già la diffusione della droga, delle droghe. La distinzione fra droghe leggere e pesanti è un noto falso scientifico: e la cannabis, che pure riceve tanta pubblicità favorevole, oltre a dare dipendenza porta danni pesantissimi: dal tumore alla degenerazione neuronale. Il consumo prolungato di cannabis è causa diretta dell’insorgenza del morbo di Alzheimer (come quello di antidepressivi lo è per il morbo di Parkinson, a proposito di sostanze gettate sul mercato col chiaro intento di rimbambire i consumatori).
Una destra che fosse seriamente intenzionata a contrastare le campagne per la legalizzazione della droga, non avrebbe problemi a trovare argomenti. Le reazioni al gestaccio del consigliere comunale piddino sono invece state le solite: pubblicità in suo favore (come allo scorso festival di Sanremo, quando un cantante si “autobenedisse” aspergendosi il capo con “acqua santa”: invece di lasciarlo schiattare di noia, gli si rispose con invettive, facendo passare per “artista maledetto” un buffone innocuo che altrimenti si sarebbe limitato a cantare “trallalla come fosse domenica”) e i soliti banalissimi slogan, “scandalo” qui, “vergogna” là, passando per reazionari rimasti indietro (facendo così il suo gioco).
Si insiste con questo rifiuto di andare in profondità, e si continua ad affrontare qualsiasi faccenda coi soliti strepiti: si tratti di cazzate totali come il ddl Zan o derive pericolosissime come la legalizzazione della droga. Perché, ai corifei della legalizzazione, non si risponde con gli esempi delle nazioni (Paesi Bassi, Uruguay, USA) in cui liberalizzare le droghe ha portato danni sociali gravissimi? Perché, ai bugiardi del motto “legalizzare per togliere un mercato alle mafie”, non si risponde che proprio le mafie di tutto il mondo spingono per ottenere la legalizzazione della droga, e che laddove l’abbiano ottenuta il narcotraffico ha fin da subito fatto affari d’oro (il cartello messicano sta ancora festeggiando la legalizzazione della cannabis in California e Nevada)?
Perché, a chi si ripara dietro la distinzione tra droghe leggere e pesanti, non si replica con i danni provocati dalle prime, e col fatto che i loro consumatori abituali inevitabilmente passano alle seconde? Perché, dato che la chiesa cattolica ormai in disarmo non affronta più il tema, agli orridi cinici secondo cui “è comunque un mercato fruttuoso, che lucrerà sempre di più”, non si ribatte con una sacrosanta questione etica, non – come si è sempre fatto – col solito birignao da bacchettoni sfigati col ditino alzato, ma con un altrettanto sacrosanto tono stentoreo e tonante?
Dall’altra parte c’è un colosso. Dalle case discografiche che assoldano in continuazione trapper spinellati, alle major hollywoodiane che producono a ripetizione film nei quali, chissà perché, qualche personaggio che fuma marijuana non manca quasi mai; dai partiti (e non solo) della sinistra ultraliberista al mercato dei bitcoin (che sta creando un tipo antropologico piuttosto repellente); dai social network (che censurano “discorsi d’odio”, ma non tangono la reclamizzazione delle droghe) all’attuale scuola psicoterapeutica: i gruppi di potere interessati a riversare sul mercato la cannabis sono parecchi, e al loro fianco trovano altri entusiasti fautori del rimbecillimento: abbiamo già scritto delle logiche dominanti che muovono chi predica la banalizzazione del dibattito politico e la polarizzazione del giornalismo.
La battaglia culturale e politica è vitale. Condurla contro i gruppi d’opinione pubblica più potenti del mondo, e contro le loro potentissime armi, richiede un impegno che non può essere sostenuto da una destra che si limita a strillare scandalizzata di fronte a provocazioni da asilo Mariuccia; tanto più, se i distruttori della cultura occidentale dalla loro hanno forze ben più sofisticate di un consigliere comunale in cerca di attenzione – dalle chimere della cultura gender, sino alla cultura accademica che propaganda idiozie come il lessico dei trapper e il linguaggio della generazione Z. Appunto: almeno un’intera generazione è minacciata dalle industrie farmaceutiche che approfittano dei “lockdown” per inebetirla con psicofarmaci, dai deliri genderisti di Amazon e Netflix, dai trafficanti di stupefacenti.