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Mezzo secolo di “Il Padrino”: un anniversario che non si può rifiutare

di Tommaso de Brabant
6 Marzo 2022
in Multimedia
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Mezzo secolo di “Il Padrino”: un anniversario che non si può rifiutare
       

Nel 1972, l’inglese John Boorman era ormai un regista affermato: aveva già diretto un musicarello (“Prendeteci se potete”) due ottimi film con protagonista l’amico Lee Marvin (“Senza un attimo di tregua” e “Duello nel Pacifico”); era incappato in un fiasco con Marcello Mastroianni (“Leone l’ultimo”), ma aveva appena realizzato quello che forse resta il suo film più importante, “Un tranquillo weekend di paura” (in originale “Deliverance”), per il quale, l’anno successivo, fu candidato all’Oscar: per il miglior film e per la miglior regia. Ricevuta la notizia, Boorman accorse a visionare i quattro rivali: pensò che “Karl e Kristina” (dello svedese Jan Troell, in lizza anche per il miglior film straniero, con “La nuova terra”, parte del medesimo dittico, con protagonisti la Ullmann e Von Sydow) e “Sounder” (di Martin Ritt, odissea d’un ragazzo di colore durante la Depressione del 1933) non avrebbero attirato i voti più “pop” dell’Academy; e di dover invece temere “Cabaret”, epocale musical diretto da Bob Fosse (super-specialista che vincerà, a spese di Boorman e Coppola, la statuetta per il miglior regista, assieme alla protagonista del suo film: Liza Minnelli). Boorman ottenne poi una proiezione dell’ultimo film restante nella cinquina, “Il Padrino”: prima ancora di terminare la prima scena, si rassegnò. “Deliverance” sarebbe stato un candidato forte in un’altra annata: ma “Il Padrino” era un candidato che non ammetteva repliche.

Proprio la cerimonia degli Oscar, dove il film ottenne tre statuette su dieci nomination, fu teatro d’un siparietto rimasto celebre: Marlon Brando (le cui condizioni psichiche erano ormai alla deriva), già vincitore dell’Oscar per “Fronte del porto” (e detentore di altre sei nomination, oltre a due Golden Globe e tre BAFTA) rifiutò di ritirare la statuetta, mandando in sua vece Marie Louise Cruz, una fotomodella che, dopo aver partecipato a manifestazioni in solidarietà dei nativi americani, si era rinominata Saachen Littlefeather. La ragazza, in costume da Apache, salì sul palco, rifiutò il premio offerto dagli attoniti Liv Ullmann e Roger Moore (il quale, nella sua simpaticissima autobiografia “My Word Is My Bond”, racconta che dopo averlo visto uscire dal retro del teatro con la statuetta, un ammiratore gli gridò “finalmente ce l’hai fatta Rog!”) e riassunse in un minuto il comunicato di quindici pagine scritto da Brando in solidarietà agli Indiani d’America, vittime di segregazione e ingenerosamente raffigurati nei film hollywoodiani. La scena suscitò non tanto scalpore e compassione per le vicende dei pellerossa, quanto sarcasmo: Michael Caine deplorò Brando per aver mandato una ragazza a buscarsi fischi e insulti al suo posto; Raquel Welch, prima di aprire la busta col nome della migliore attrice, commentò “spero non abbia una causa da sostenere”; Clint Eastwood, prima di premiare il miglior film, espresse solidarietà verso “i cowboy uccisi nei film di John Ford”; dietro le quinte, Roger Moore difese “Piccola Piuma” da un’aggressione di John Wayne.

Eppure, per Marlon Brando, il miglior attore di sempre assieme a Orson Welles e Laurence Olivier, “Il Padrino” fu una rivincita. Il divo era reduce da una serie di fiaschi (ingiusti): una serie cominciata nel 1967 con “Riflessi in un occhio d’oro” di John Huston e proseguita nel 1969 con “Queimada” di Gillo Pontecorvo. Nemmeno il 1972 era cominciato con i migliori auspici: Brando era stato protagonista di due pellicole che ne sfruttavano il magnetismo da predatore sessuale; se però “Improvvisamente, un uomo nella notte”, interessante prequel (diretto da un regista promettente poi rivelatosi un disastro, Michael Winner) d’un grande classico della letteratura horror, “Il giro di vite” di Henry James, non attirò il pubblico, il pessimo “Ultimo tango a Parigi”, trionfo di stupidità sessantottina, lo espose all’accusa di aver brutalizzato una ragazzina – la coprotagonista, Maria Schneider; in realtà, sia la Schneider che Brando furono plagiati da Bernardo Bertolucci, che profittò dell’immaturità di un’attrice quasi debuttante e della psiche compromessa del divo. Messinscena narcisista d’un sogno tutt’altro che affascinante dell’ex aiuto-regista di Pasolini, il film fu realizzato al solo scopo di cercare uno scandalo: che giunse, assegnando a Bertolucci una fama altrimenti giustificabile soltanto con le sue posizioni politiche, e rovinando la salute mentale dei due attori protagonisti. La Schneider reciterà in un solo film importante, “Professione reporter” di Antonioni; Brando sarà salvato dall’emarginazione soltanto, appunto, da “Il Padrino”.

Un film titanico, affidato a un regista quasi sconosciuto. Francis Ford Coppola aveva sino allora diretto quattro film indipendenti, più uno con Fred Astaire (“Sulle ali dell’arcobaleno”), e si era segnalato soprattutto per la sceneggiatura, due anni prima di “Il Padrino”, di “Patton, generale d’acciaio”: biografia del generale statunitense trionfatore della Seconda Guerra Mondiale (e responsabile di eccidi su suolo italiano), premiata con sei Oscar – tra cui miglior film, regia (Franklyn Schaffner), attore protagonista (George C. Scott) e, per l’appunto, miglior sceneggiatura: la prima di sei statuette per Coppola, lucano nato a Detroit. Pur non essendo ancora un nome di prima grandezza, Coppola ricevette dalla Paramount l’incarico di portare sullo schermo il romanzo di Mario Puzo: un bestseller scritto dal giornalista, romanziere e sceneggiatore italoamericano su commissione, per spianare i suoi debiti di gioco. Il regista si comportò da cineasta di prima grandezza, pretendendo una produzione sontuosa: il film avrebbe sfiorato le tre ore, avrebbe avuto qualche scena di massa, con molti costumi, e alcuni nomi noti.

Visto oggi, il cast sembra stellare: ma quando il film uscì, l’astro di Marlon Brando oscurava tutti gli altri nomi. Soltanto Robert Duvall (Tom Hagen, il figlio adottivo di Don Vito, consigliere e avvocato della famiglia) aveva già partecipato a due classici (“Il buio oltre la siepe” e “M*A*S*H”). Diane Keaton (Kay Adams, fidanzata di Michael Corleone) aveva debuttato recentissimamente (di lì a poco, Woody Allen avrà la pessima trovata di farle girare un film ogni anno); Talia Shire (Costanza Corleone detta Connie, la sola femmina tra i quattro figli di Don Vito) è la sorella del regista (altro suo ruolo assai noto sarà Adriana, fidanzata di Rocky Balboa nei film di Sylvester Stallone sull’immaginario pugile di Philadelphia), inaugurando la tradizione di nepotismo dei Coppola: con pseudonimo (il nipote Nicolas Cage, attore) o senza (la figlia Sofia, regista – grazie al buon nome di papà); James Caan (Santino Corleone detto Sonny, l’esagitato figlio maggiore di Don Vito) era stato protagonista di alcuni film d’azione (tre anni dopo “Il Padrino”, avrà ancora successo con “Rollerball”, ma un forte malessere interiore fermerà la sua carriera negli anni ’80, sino a tornare alla ribalta come scrittore di romanzi rosa sequestrato da una ammiratrice folle – Kathy Bates – in “Misery non deve morire”, da un incubo di Stephen King); lo sventurato John Cazale (Fredo, il più debole dei fratelli Corleone), fidanzato di Meryl Streep e amico fraterno di Al Pacino (che lo considerava il partner ideale sulla scena) e Robert De Niro, per colpa d’un tumore avrà una carriera brevissima, terminata con “Il cacciatore” di Michael Cimino. Tra i pochi veterani del cast vi è però Sterling Hayden (McCluskey, corrotto ufficiale di polizia irlandese, che nonostante il dichiarato astio nei confronti degli italiani protegge i clan Sollozzo e Tattaglia), gigantesco reduce della Seconda Guerra Mondiale.

Almeno due gli interpreti provenienti dal mondo della criminalità organizzata: l’imponente (quasi due metri per oltre cento chili) “wrestler” Lenny Montana, nei panni del sicario Luca Brasi (nonostante il fisico e i trascorsi, Montana sul set si rivelò timidissimo: la scena di Brasi che si prepara al colloquio con Don Vito ripetendo gli auguri fu ispirata a Coppola dal timore reverenziale col quale Montana si preparò a dividere la scena con nientemeno che Marlon Brando): Al Lettieri (Virgil Sollozzo detto “il Turco”, narcotrafficante e nemico mortale dei Corleone), che quattro anni dopo, indispettito dalla libertà d’improvvisazione lasciata a Gigi Proietti e dalla disinvoltura degli orari del set, proverà a uccidere Pupi Avati sul set del musical grottesco “Bordella” (dedicato, nonostante l’episodio, alla memoria dell’attore italoamericano, stroncato da un infarto alla fine delle riprese).

La celebrità di Brando sarà raggiunta da un solo altro componente del cast: Al Pacino (Michael Corleone, figlio di Don Vito e reduce dal conflitto mondiale), che l’anno prima si era fatto notare per “Panico a Needle Park”, durissimo ritratto d’una coppia di eroinomani allo sbando newyorkesi allo sbando (con lui Kitty Winn, premiata per la sua interpretazione a Cannes; dopo essere stata la tata di Linda Blair alias Regan MacNeil nei primi due film di “L’esorcista”, l’attrice – assai graziosa, ma involuta rispetto al film con Pacino – sparirà dalle scene). Sguardo di brace sotto folta zazzera nera, il minuto attore del Queens aveva trascorso la sua prima giovinezza tra gli stenti e una dedizione fanatica al sogno della recitazione. Nonostante la perplessità della Paramount per la sua ridotta statura fisica, Coppola vide nell’ignoto attore italoamericano il carisma, il magnetismo e il furore nascosto di Michael, il figlio timido del “padrino” che, considerato da tutti un cadetto, si impone come il boss più potente della mafia italoamericana: sarà il principio dell’impareggiabile carriera (seguiranno “Serpico”, “Quel pomeriggio d’un giorno da cani”, “Cruising”, “Carlito’s Way”, “Heat – La sfida” e tanto Shakespeare, sia a teatro che al cinema) dell’attore più rispettato tuttora in carriera.

Le scene in cui Marlon Brando e Al Pacino si spartiscono l’inquadratura, allora, a molti non dissero molto; ai più previdenti, sembrarono un duetto tra un attore esperto e uno promettente (che si permise già di fare il prezioso: offeso dalla nomination per il miglior attore non protagonista, Pacino disertò la cerimonia degli Oscar – sì, proprio quella che Brando e “Piccola Piuma” resero… spettacolare). Oggi, se ne nota con emozione il peso storico.

Non c’è una scena che non sia rimasta nella storia del cinema, né un dettaglio: dal tema musicale di Nino Rota al logo (la mano d’un “puparo” che regge i fili delle marionette); dal matrimonio di Connie al battesimo di suo figlio, alternato dal montaggio alla strage dei clan Sollozzo e Tattaglia, mentre Michael spergiura di “rinunciare a Satana, alle sue opere e alle sue tentazioni”, manifestandosi quale principe del male; al fatto che non si pronunci mai la parola “mafia”, rendendo effettiva anche nel film l’osservanza dell’omertà. Sugli scudi c’è Marlon Brando, con l’ovatta nella bocca (per dare a Don Vito “un aspetto da bulldog”), la parlata strascicata, gli zigomi grattati tenendo il dorso della mano in fuori, e un gatto maniaco dell’attenzione in braccio (stando alla leggenda, il felino scheletrico che Don Vito coccola durante l’udienza al becchino Buonasera non era stato “ingaggiato”, ma era un randagio che fece irruzione sul set e saltò in braccio a Brando, pretendendo carezze dal divo ed elargendoli in cambio qualche graffio). Don Vito che si spegne giocando col nipotino tra i pomodori è forse la morte più bella mai vista al cinema.

Diventato un cineasta di fama, Coppola passò di colpo da girare tanti piccoli film a girarne pochi, ma di alto livello. Dopo un “cult” con Gene Hackman nel ruolo di uno spione paranoico (“La conversazione”), sarà Coppola stesso a superare il suo primo grande film: con il “Il Padrino – Parte II”, rarissimo (se non unico) esempio di sequel (solitamente, un tentativo di sfruttare il successo d’un film, lesinando sulla qualità) migliore del primo episodio – e, considerando cosa fosse il capostipite, ci si rende conto dell’enormità del fatto. Superando ancora il carattere e le bizzarrie di Marlon Brando, Coppola si affiderà a lui per un’altra interpretazione ineguagliabile: Kurtz, il colonnello reso folle dall’orrore della guerra del Vietnam. Coppola stesso smentirà chi poteva pensare che non si potesse fare di meglio di “Il Padrino”, perché con “Apocalypse Now” realizzerà il miglior film americano di sempre (a patto di escludere dal novero Orson Welles, perché Welles – considerato dalla Paramount per il ruolo di Don Vito – è troppo grande per qualsiasi raffronto); e Brando stesso smentirà chi credeva che fosse possibile un’interpretazione migliore di Don Corleone, perché il suo Kurtz che sciorina poesia e delirio immergendosi nelle tenebre ed emergendone è la miglior prova attoriale di sempre (a patto di non considerare Orson Welles che fa Harry Lime in “Il terzo uomo”, perché Orson Welles è incommensurabile).

Cinquant’anni, mezzo secolo di “Il Padrino”: una traccia profondissima nell’immaginario collettivo. Sono pochissimi i film che hanno segnato con altrettanta forza la cultura popolare: forse James Bond, “Guerre stellari” – che però di “Il Padrino” non hanno la qualità. Era l’epoca del grande cinema. Era…

L’uscita al cinema del film, per celebrarne il cinquantennale, era stata annunciata per il 22-23-24 marzo, ma è stata anticipata al 28 febbraio e al 1°-2 marzo.

Tags: cinemaMarlon Brando
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