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Home L'Editoriale

Franco Battiato, il (mio amico) genio

di Massimo Magliaro
18 Maggio 2021
in L'Editoriale
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Franco Battiato, il (mio amico) genio
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Arrivò nello studio televisivo di Rai International a Saxa Rubra accompagnato da Franco Cattini, il suo manager-amico-produttore. Scarpe grosse, intabarrato dentro un impermeabile pesante, sciarpone. Faceva freddo. Era dicembre 2003. Ci mettemmo a parlare del niente. Sembrava intimidito o magari era solo intirizzito. Ma dopo un paio di minuti scattò qualcosa. Come se si fosse aperta una porta chiusa.

Non so come e perché cominciammo a parlare di Gurdijeff. Battiato lo aveva studiato e lo studiava in modo molto approfondito. Si considerava suo allievo e ne parlava affascinato. Lo stesso modo affascinato col quale me ne parlava a Los Angeles (era il 1969) mia zia Yolanda che di Georges Gurdjieff era stata allieva alla metà degli Anni ‘20.

Parlammo di Swami Vivekananda, di Sri Aurobindo, dei Veda. E, quando gli dissi che mia zia aveva abbandonato la religione cattolica per abbracciare quella dei Veda, non mosse ciglio. Volle sapere altro di mia zia, la sua vita a Roma prima di trasferirsi dall’altra parte del mondo, che educazione aveva ricevuto, che vita faceva in California, dove stava il Tempio Veda che (gli avevo appena detto) mia zia aveva contribuito a costruire a Los Angeles con una grossa donazione.

Rimase affascinato quando gli dissi che casa di mia zia era una sorta di cenacolo culturale frequentato da Igor Stravinskij, da Wally Toscanini, da Kurt Wilhelm Marek, noto al mondo come Ceram, da Aldous Huxley e da altri artisti e intellettuali di cui non ricordavo più i nomi.

La sintonia tra di noi nacque in mezzo a questi discorsi, a queste storie, a queste suggestioni. Alla fine della registrazione dell’intervista (un’ora e mezza!) fatta per la trasmissione Sabato italiano, rimanemmo ancora a chiacchierare. Mi chiese di non sparire. Gli dissi subito: Che ne diresti se organizziamo un tuo concerto ma non nel solito Palasport o nella solita piazza grande della città ics? Bella idea. Dove? In un sito mai utilizzato per la musica, risposi di getto. Segesta ad esempio, utilizzando il tempio ellenistico che è il più bel teatro di pietra al mondo.

Meraviglioso. Ti dico subito sì. Ma lì, aggiunse, concerti non ne sono mai stati fatti. Qualche tempo fa Albertazzi organizzò, alle luci dell’alba, la lettura di classici. E’ un sito importante. Farci un concerto significa portare una logistica pesante che forse non si concilia col posto. Credo di avere una carta importante da giocare. Conosco il sindaco di Calatafimi-Segesta. Non è solo un amico. E’ un uomo di grande cultura. Fammici provare.

Nicola Cristaldi, nascosto dietro i suoi mitici baffoni, disse subito di sì, di sì ad un evento che non era affatto commerciale (il teatro non ha una capienza adeguata per fare cassa) ma culturale e che cultura! Franco ne fu felice. Quando glielo dissi pareva un bambino. Cantare a Segesta. Di notte. Davanti al mare. Con l’acustica che solo i greci sapevano trovare con quella pienezza. A qualche centinaio di metri da un’altra perla di quella immensa civiltà, il Tempio dorico. Un sogno che diventa realtà. Una magia. Certo, c’è da arrampicarsi su quella salita sassosa e ardua per portare tutto il materiale, c’è da faticare e tanto. Ma ne vale la pena.

Per accordarci su tempi e modi del concerto ci vedemmo a casa sua, al centro di Catania. Libri, quadri, luci tranquille, divani, poltrone, un buon caffè. Arriva il 29 luglio 2004. Un caldo boia. E gli operai faticano come mai prima di allora. Dalla mattina alla sera a montare, aggiustare, collegare e poi provare, ritoccare, sistemare. Franco di ottimo umore. Battute con tutti. Scherzi con gli operai, con gli elettricisti, con i musicisti. A me: Sta’ tranquillo, andrà tutto bene.

La strada è un sentiero scosceso e scomodo. Si forma, per salire su dov’è il teatro, un fiume umano che non può entrare tutto nella gradinata.  Una marea davvero impressionante. Molti restano fuori. E Franco, all’inizio, si scusa per i disagi ma ringrazia tutti perché tutti vogliono assistere a qualcosa di unico. Le telecamere di Rai International, guidate da Francesco Pogliani, girano una serata di quelle che…

Finito il concerto ce ne andiamo a cena a Terrasini. Battiato, Sgalambro, Veneziani (allora consigliere d’amministrazione della Rai), Pogliani e la sua vice, Ferazzoli, e io. E’ l’una di notte. Il paese dorme. Ceniamo all’aperto, sotto le stelle. Sgalambro ha gli occhiali da sole ma c’è la luna, una bella luna bianca. Si parla di progetti, di viaggi, di quadri. La stanchezza non affiora. C’è in tutti noi la consapevolezza di aver ideato e realizzato qualcosa di speciale e di avervi partecipato con leggerezza e, allo stesso tempo, con profondità. Leviamo le tende che sono le tre.

Di tutto questo parlo al presente perché, soprattutto oggi che il (mio amico) genio se ne è andato altrove, tutto ciò è qui, con me, con me che sono orgoglioso di avergli regalato una serata irripetibile.

Qualche tempo tornò in un’altra trasmissione di Rai International: Domenica italiana. Mentre chiacchieravamo su un divano nella mia stanza da lavoro, Franco mi fa: Ti debbo chiedere un favore. Dimmi. Mi presti questi locali per qualche ora perché sto girando un film e questa ambientazione mi piace?  E poi: Mi piacerebbe che tu avessi una parte nel film, quella del capo ufficio burbero e antipatico. A Pogliani gliene faccio fare un’altra, migliore. Il film era “Musikanten”.

Girò le scene dove aveva voluto, fra il mio ufficio e il corridoio prospiciente. Quando girava, Franco non pensava ad altro e non parlava di altro. Era concentrato come una macchina da guerra su quel che stava facendo. Quando se ne andò mi disse: Ti ho anche fatto diventare attore! Sarai contento, no?

L’ultimo incontro fu a New York. Ero stato nominato presidente di Rai Corporation ed ero arrivato da pochi giorni nella Grande Mela. La mia segretaria, Fiammetta, organizzò una sorpresa. Presidente, non deve prendere impegni per venerdì prossimo. Perché? E’ una sorpresa.

Arrivò il giorno in questione. E mi accompagnarono al Village senza dirmi nulla di più. Davanti ad un portone riconobbi altri dipendenti della sede newyorchese della Rai. Cercai di capire. Niente. Finchè mi andarono gli occhi su un piccolo manifesto affisso su un muro: Franco Battiato’s Show. Capisco.

La prima cosa che feci fu di chiamarlo al telefono. Mi rispose subito interrompendo le ultime prove che stava effettuando e quando gli dissi che ero fuori del locale in attesa dell’inizio, chiuse la conversazione e salì su, in strada, per abbracciarmi e salutarmi.

E che ci fai a New York? Adesso ci vivo e ci lavoro! Quanto ti trattieni? Quattro-cinque giorni. Allora ci vediamo. Ti va? Mi va? Certo che mi va! Non ho programmi, se non fare il turista.

Per cinque giorni di seguito ce ne siamo andati in giro a vedere la Grande Mela. Vicino al toro di Wall Street, quello realizzata da Di Monica, ci rimettemmo a parlare di Gurdjieff e delle radici alternative al mondo che ci stava davanti, del bisogno assoluto di non essere come gli altri.

Ieri sera, prima che ti salutassi, ho voluto riascoltare “L’ombra della luce”. Chissà perché.

Ciao genio

Tags: Franco BattiatoGeorges GurdjieffmusicaRAISegesta
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