Una vittoria, un’incognita ed un papocchio all’italiana. Così si può sintetizzare quanto accaduto negli ultimi dieci giorni sul delicato – e complesso – fronte degli approvvigionamenti energetici. Partiamo dalla vittoria: così, infatti, può essere definito il risultato raggiunto il 20 settembre dall’Eni a Cipro. La compagnia italiana grazie ad un accordo con la francese Total ha ottenuto dal governo dell’isola i diritti di esplorazione e sfruttamento di idrocarburi nel settore 7 della zona economica esclusiva cipriota.

Un risultato che rafforza sensibilmente la posizione dell’Eni nel Mediterraneo orientale, rappresentando, di fatto, una vittoria – l’ennesima – della “diplomazia parallela” della compagnia. Tanto più evidente in considerazione del fatto che l’accordo è stato raggiunto con il coinvolgimento della Total, agguerrito concorrente della compagnia italiana in numerosi scacchieri, ad iniziare da quello libico (dove l’attivismo francese mira proprio a scalzare l’Eni – e l’Italia – dalla posizione privilegiata costruita negli anni). Della partita cipriota è anche la compagnia coreana Kogas, presente nello sfruttamento dei blocchi 2,3 e 9 in cooperazione con Eni e Total.
L’accordo siglato a Nicosia ha – com’era facilmente prevedibile – provocato l’immediata reazione di Ankara, protettrice della Repubblica turca di Cipro del Nord (nata all’indomani dell’invasione turca del 1974 e mai riconosciuta a livello internazionale) e dei suoi “diritti” sullo sfruttamento delle risorse energetiche sottomarine. Facendosi scudo dei turco-ciprioti in realtà la Turchia mira ad uno sfruttamento diretto delle risorse presenti nel Mediterraneo orientale. Del resto le parole del portavoce della diplomazia turca non si prestano ad equivoci: “la cosiddetta area di licenza numero 7 – ha detto Hami Aksoy – rimane all’interno della piattaforma continentale turca, che è stata registrata presso le Nazioni Unite”, ergo la Turchia non consentirà “in alcun modo a nessun Paese, azienda o nave straniera di svolgere attività di esplorazione e di sfruttamento di idrocarburi non autorizzate all’interno delle sue giurisdizioni marittime e continuerà ad adottare le misure necessarie per proteggere i suoi diritti e interessi”. Quali siano gli strumenti che Ankara intende utilizzare per proteggere i proprio interessi è stato mostrato nel febbraio dello scorso anno, quando una corvetta turca impedì ad una nave dell’Eni di svolgere le attività di ricerca regolarmente autorizzate da Nicosia.
Veniamo, quindi, all’incognita. Nell’occasione citata il governo italiano – Gentiloni presidente del Consiglio – pensò bene di non intervenire, né diplomaticamente né – orrore! – militarmente. Ovviamente nessuno chiedeva di scatenare una battaglia navale nel Mediterraneo orientale, ma in questi casi mostrar bandiera con un paio di navi – che pure erano in mare – è un segnale inequivocabile di determinazione a difendere i legittimi interessi di una compagnia italiana e, di conseguenza, quelli del Paese. Ora, con il nuovo esecutivo giallo-rosso (rosa? fucsia? Ogni variazione cromatica appare lecita!) un atteggiamento più determinato da parte dell’Italia appare altamente improbabile, a fronte di una postura turca senza dubbio assertiva se non addirittura aggressiva. Lecito, dunque, domandarsi se l’atteggiamento di Roma non rischi di vanificare il successo dell’Eni.
Un infausto presagio è rappresentato da un recente risultato negativo in materia di sfruttamento delle risorse energetiche sottomarine. A causa delle moratorie alle ricerche sottomarine – figlie di un ambientalismo ideologico quanto miope – lo sfruttamento del giacimento Fortuna Prospect sarà effettuato con tutta probabilità dalla Grecia e non dall’Italia. E fa nulla se il giacimento di metano si trova a largo di Santa Maria di Leuca, estendendosi fino all’isola greca di Corfù. Mentre a Roma si rilasciano autorizzazioni provvisorie poi bloccate dalle moratorie, ad Atene si dà il via libera alla ricerca. Risultato? Quasi certamente saranno i greci ad estrarre il metano, le aziende greche dell’indotto ne trarranno profitto, lo stato greco intascherà le royalty e … l’Italia acquisterà il “suo” metano estratto da altri. E per di più senza nessun vantaggio sotto il profilo della tutela ambientale: le piattaforme di estrazione saranno a ridosso del confine marittimo italiano, dunque in caso – non sia mai – di un ipotetico incidente comunque ne subiranno i danni le coste ed il mare pugliesi. Senza averne mai guadagnato nulla. Un caso di miopia politico-strategica degno di finire nei manuali.
Insomma, nella strategica quanto complessa partita per lo sfruttamento delle risorse energetiche sottomarine l’Italia sembra aver scelto a tavolino una strategia altamente rischiosa, quando non apertamente perdente. Quasi che assicurare al sistema Paese la sicurezza degli approvvigionamenti energetici non fosse una delle priorità strategiche da garantire.