L’attuale “Guerra delle petroliere” nel Golfo Persico ha un precedente importante nel conflitto Iran -Iraq 1980-1988. Per comprendere la portata e la pericolosità della crisi oddierna vale la pena ripercorrere le fasi salienti (e meno conosciute) di quel non lontano “torneo d’ombre”.
L’opportunità di dimostrare la propensione USA verso Saddam nella Guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 arrivò presto. Il Kuwait stava osservando con crescente nervosismo i successi dell’Iran sul campo di battaglia, forse resi possibili da vendite di armi e informazioni di intelligence da parte degli USA. L’Iran stava adesso attaccando anche le navi da e per i porti kuwaitiani, cosicché il Kuwait chiese la protezione degli Stati Uniti. Nel settembre del 1986 (prima dell’esplodere dello scandalo Iran-Contra), il Kuwait avviò contatti sia con Washington sia con Mosca chiedendo se fossero interessati a “cambiare bandiera” (reflagging) qualche nave kuwaitiana, ossia far battere la loro bandiera sulle navi del Kuwait e quindi di conseguenza proteggere militarmente queste nuove acquisizioni alla loro Marina mercantile. La reazione USA iniziale fu noncurante.
Ma quando gli USA vennero a conoscenza nel marzo 1987 che l’Unione Sovietica si era offerta di “cambiare bandiera” undici petroliere, offrirono prontamente di “cambiare bandiera” le stesse undici − cosa che avrebbe sia mantenuto l’influenza sovietica fuori dal Golfo Persico e dato agli Stati Uniti l’opportunità di dimostrare il loro appoggio all’Irak.
I kuwaitiani accettarono l’offerta USA, declinando quella di Mosca, anche se presero in charter tre navi sovietiche per bilanciare in qualche maniera i loro rapporti con USA e URSS, i kuwaitiani dimostrando così di aver meno timore della “contaminazione” sovietica che i loro salvatori americani.
Il Sottosegretario agli affari politici Michael H. Armacost spiegò nel giugno 1987 che se fosse stato concesso all’URSS un ruolo maggiore nella protezione del petrolio del Golfo Persico, gli stati del Golfo avrebbero subito grandi pressioni per dare a Mosca ulteriori concessioni.
Il punto di vista USA era che solo a una superpotenza doveva essere permesso di avere basi e infrastrutture nella regione, e quella erano gli Stati Uniti.
Perciò, quando nel dicembre 1980 l’Unione Sovietica propose la neutralizzazione diplomatica del Golfo Persico, con nessuna alleanza, nessuna base, nessun intervento nella regione, e nessun ostacolo al libero commercio e alle rotte marittime, Washington non mostrò alcun interesse.

All’agosto del 1987, gli USA avevano nel o nei pressi del Golfo Persico una Portaerei, una Corazzata, sei Incrociatori lanciamissili, tre Destroyer, sette Fregate e altro naviglio minore e di supporto98 in quella che uno studio del Congresso definì “la più grande singola armata navale dai tempi della guerra del Vietnam”.
L’Amministrazione Reagan dichiarò che il “reflagging” intendeva proteggere il flusso del petrolio, ponendo l’accento sul fatto che “qualunque significativa diminuzione nella fornitura del greggio del Golfo Persico causerebbe i prezzi mondiali del petrolio di andare alle stelle”, ricordando cupamente come gli eventi del 1973-1974 e 1978-1979 dimostrarono come “una piccola contrazione − del meno del 5% − può provocare una netta impennata dei prezzi del petrolio”.
In realtà, comunque, il petrolio − e i prezzi del petrolio, per quanto riguarda ciò – non furono mai minacciati. Sin dai primi anni Ottanta vi era stata una sovrabbondanza mondiale del petrolio, con un notevole margine di sovrapproduzione non utilizzato nelle nazioni al di fuori del Golfo Persico.
Nonostante l’orrendo costo umano della guerra Iran-Iraq, il prezzo del petrolio era in effetti caduto del 50% durante il corso del conflitto. Per la fine del 1987, i due terzi di tutto il petrolio estratto nel Golfo Persico era trasportato via oleodotto. Lo studio del Congresso notò che anche nell’improbabile caso di una vera e propria chiusura del Golfo Persico, l’impatto delle forniture di petrolio e sui prezzi sarebbe stato minimo; in nessun modo lo Stretto di Hormuz poteva essere visto come la “giugulare” delle economie occidentali.
Meno che il 2% delle navi che transitarono nello Stretto fuono attaccate, e anche questa cifra è fuorviante perché molti degli attacchi inflissero danni relativamente minori. Solo un attacco iraniano su dieci causava danni gravi. Significativamente, l’Iran divenne più aggressivo nell’attaccare il traffico mercantile a causa della presenza navale americana. Tra il 1981 e l’aprile 1987, quando fu annunciato il “reflagging” USA, l’Iran aveva colpito 90 navi; in meno di un anno da quel momento, l’Iran colpì 126 navi. Come rimarcò lo studio del Congresso, “il traffico mercantile nel Golfo Persico sembra ora meno sicuro che prima che iniziasse il massiccio aumento della forza navale USA”.
Se gli USA fossero stati interessati alla libera navigazione, avrebbero potuto tenere in qualche considerazione la proposta sovietica di ritirare le Marine Militari statunitensi e delle altre nazioni dal Golfo, e farle rimpiazzare da una forza delle Nazioni Unite.
Ma Washington non era interessata. In realtà, alcuni, come il “New York Times”, notarono come erano gli Stati Uniti che avrebbero potuto chiudere il Golfo Persico − alle esportazioni iraniane − anche se il “NY Times” aggiunse che una “tale azione sarebbe stata chiaramente impensabile a meno che non fosse richiesto dagli stati arabi della regione”. Questo per quanto riguardava la libera navigazione.
Fu l’Iraq a iniziare la “Guerra delle petroliere” nel Golfo Perisco stesso nel 1981, e che continuò questi attacchi fin nel 1984 senza una parallela risposta iraniana sul mare. Due mesi dopo che l’Iraq aveva aumentato l’intensità e lo scopo degli attacchi nel marzo 1984, l’Iran iniziò infine a rispondere.
Gli attacchi iracheni, ad ogni modo, superavano in numero quelli iraniani sino a dopo che gli Stati Uniti annunciarono il reflagging. La US Navy proteggeva le navi “ribandierate”, e nell’aprile 1988 estese la sua protezione alle navi neutrali che giungevano sotto attacco iraniano.
In pratica, questo significava che l’Iraq poteva colpire impunemente le navi iraniane, mentre la US Navy impediva la risposta di Teheran. Washington giustificò la sua politica rimarcando come l’Iraq attaccasse solo le navi iraniane, mentre l’Iran prendeva di mira anche le navi dei neutrali, e il Kuwait in particolare. Questo era un argomento legale dubbio in due punti: primo, il Kuwait era un neutrale impegnato in un comportamento piuttosto poco neutrale. Tra l’altro, apriva i suoi porti alle consegne di materiale bellico che erano poi trasportate via terra all’Irak. Secondo, anche l’Iraq colpiva navi neutrali, perfino dell’Arabia Saudita − quando esse facevano scalo in Iran. L’Iraq dichiarò certe acque iraniane “zone di esclusione di guerra”, ma come notò un esperto di diritto internazionale, il “metodo [iracheno] di farle rispettare rassomigliava da vicino i metodi tedeschi” della seconda guerra mondiale, e in “ultima analisi la zona di esclusione irachena non poteva essere giustificata”. Gli “attacchi alle navi mercantili neutrali da ambo le parti devono essere condannati come violazioni del diritto internazionale”. Non c’era quindi nessuna giustificazione legale per gli USA nello schierarsi dalla parte dell’Iraq nella “Guerra delle petroliere”.
E era ancora più privo di senso il riferirsi alla U.S. Navy come una forza di peacekeeping [mantenimento della pace]. Gary Sick, un ex ufficiale del Consiglio Nazionale di Sicurezza in carica in Iran, asserì che le unità navali americane “erano state schierate aggressivamente e provocatoriamente nei punti più caldi del Golfo Persico”. “La nostra strategia di pattugliamento aggressivo”, osservò, “tende a iniziare degli scontri, non a farli finire. In alcuni momenti ci comportiamo come se il nostro obiettivo sia pungolare l’Iran in una guerra con noi”. Secondo un rapporto del Congresso, funzionari in ogni paese del Golfo Persico erano critici della “maniera altamente provocatoria nella quale le forze USA sono schierate”.
Quando nell’aprile 1988 gli USA trasformarono il danneggiamento di una nave americana a causa di una mina marina nella più grande battaglia navale della U.S. Navy dalla seconda guerra mondiale [l’Operazione Praying Mantis, NdC], “Al Ittihad”, un quotidiano che spesso rifletteva l’opinione governativa degli Emirati Arabi Uniti, criticò gli attacchi USA, rimarcando come essi aggiungessero “carburante alla tensione del Golfo Persico”.
La postura aggressiva degli USA era in marcato contrasto con quella dell’Unione Sovietica. Anche l’Unione Sovietica stava scortando delle navi nel Golfo Perisco, particolarmente bastimenti trasportanti armi in Kuwait per l’Iraq. Il 6 maggio 1987, delle motovedette iraniane attaccarono una nave mercantile sovietica, e due settimane più tardi una delle navi sovietiche prese in charter dal Kuwait rimase vittima di una mina marina, la prima dal 1984. Questi avvenimenti non sono molto conosciuti, perché la risposta sovietica fu estremamente mite.
La condotta politica nel Golfo Persico è stata oggetto di uno studio commissionato dall’U.S. Army e scritto dallo stimato e peso massimo intellettuale Francis Fukuyama della Rand Corporation. Fukuyama concluse che il “nuovo pensiero” di Gorbaciov [la Perestrojika, la “nuova linea” politica, economica e sociale propugnata dal premier sovietico, NdC] per quanto riguardava il Golfo Persico era solo retorica, perché Mosca continuava a inseguire una politica di “somma zero” (ossia, totale competizione) a fronte degli Stati Uniti.
Ma i fatti presentati nello studio suggeriscono una conclusione piuttosto differente. Fukuyama nota che i “sovietici, è vero, avevano di fronte una amministrazione USA che essa stessa stava giocando un gioco alla “somma zero” ben simile nel Golfo Persico… Quello che i sovietici potessero fare se confrontati da degli Stati Uniti più collaborativi non si può provare e di conseguenza è sconosciuto”. Nondimeno, per Fukuyama l’URSS è da incolpare poiché dal momento che Gorbaciov era stato accomodante in altre questioni politiche davanti all’intransigenza USA, allora tanto valeva che lo fosse anche nel Golfo Persico.

Fukuyama riconosce che l’Unione Sovietica si trattenne dal seguire altre, più aggressive politiche nel Golfo Persico, come tentare di superare Washington nell’influenzare il Kuwait. Osserva che le unità navali sovietiche nel Golfo Persico non furono impiegate offensivamente, in contrasto con quelle degli Stati Uniti (in effetti Fukuyama indica come sin dai primi anni Settanta, Mosca aveva rallentato lo sviluppo della sua capacità di proiezione di forza, al contrario degli Stati Uniti).
L’URSS cercò di impiegare degli strumenti economici e politici per condurre la sua linea nel Golfo Persico, piuttosto che quelli prevalentemente militari usati dagli USA.
E quando Mosca cercò in effetti il suo vantaggio in relazione con l’Iran, lo fece in risposta agli accordi segreti a Teheran della Casa Bianca.
In breve, se la politica sovietica nel Golfo Persico può essere criticata per il suo insufficiente “nuovo pensiero”, al suo confronto la politica USA rifletteva un approccio dell’Età della Pietra.
Indifferenza e diplomazia
L’aggressivo ridispiegamento navale USA nel Golfo Persico non suscitò alcun dissenso dal “New York Times”. Gli editorialisti ammettevano che “la professione di neutralità [di Washington] era la più trasparente delle foglie di fico”, e che in realtà l”America pende verso l’Iraq”. Ma questo “pendere” è “per una giusta causa”, perchè è una strategia studiata per raggiungere la pace.
L’amministrazione era stata confusa, ammetteva il “Times”, ma adesso Washington aveva sviluppato “una politica coerente per contenere l’Iran. Si è perciò meritata il diritto di accettare dei rischi nel Golfo Persico”.
E quando i rischi ebbero come conseguenza la distruzione dell’aereo di linea iraniano, gli editorialisti dichiararono che la colpa poteva essere responsabilità del pilota iraniano, e se ciò non fosse, allora certamente era colpa di Teheran il suo rifiuto di porre termine alla guerra.
Questa è l’opinione corrente, ampiamente promossa da Washington, sulla guerra − che l’Iran fosse il solo ostacolo alla pace.
Un riesame della diplomazia della guerra, d’altra parte, mostra come mentre Khomeini certamente porta una tremenda responsabilità per lo spargimento di sangue, questa responsabilità non è solo sua.
Quando l’Iraq attaccò l’Iran il 22 settembre 1980, il Consiglio dell’ONU attese quattro giorni prima di tenere una riunione. Il 28 settembre approvò la Risoluzione 479, che richiedeva la fine dei combattimenti. Significativamente, comunque, la risoluzione non condannava (e neanche menzionava) l’aggressione irachena e non pretendeva un ritorno ai confini riconosciuti internazionalmente.
Come concluse Ralph King, che studiò a fondo la risposta ONU, “il Consiglio, più o meno deliberatamente, ignorò le azioni dell’Iraq del settembre 1980”. Fece ciò perchè il Consiglio nel suo complesso vedeva negativamente l’Iran, e non era abbastanza preoccupato della condizione dell’Iran per venirgli in aiuto.
Il delegato USA notò che l’Iran, che aveva essa stessa violato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza nel caso degli ostaggi dell’ambasciata USA, potesse difficilmente lamentarsi della fiacca risposta del Consiglio.
L’Iran rigettò la Risoluzione 479 come di parte − e in effetti lo era. Quando la Norvegia richiese una ritirata delle forze, con osservatori internazionali, l’Iraq replicò − accuratamente − che ciò avrebbe violato la 479. L’Iran si rifiutò di iniziare qualunque trattativa sino a quando fossero rimaste delle forze irachene sul suo suolo.
Nel frattempo, funzionari del Dipartimento di Stato proposero uno “sforzo congiunto statunitense-sovietico per promuovere un accordo”, ma Brzezinski argomentò come questo “avrebbe legittimato la posizione sovietica nel Golfo Persico, quindi tagliando obiettivamente i nostri interessi vitali”.
Non pervenne alcuna iniziativa USA. Qualche altra seduta del Consiglio di Sicurezza fu tenuta in ottobre, e poi non vi furono altri incontri formali con oggetto la guerra, nonostante l’immensa carneficina, sino al luglio 1982.
Ci fu un gran numero di sforzi di mediazione da parte di terzi. Il primo fu intrapreso da Olof Palme, in rappresentanza del Segretario Generale dell’ONU. Palme propose che come primo passo le due parti avrebbero accettato di bonificare il conteso Shatt al-Arab.
L’Iraq, tuttavia, avrebbe dato la sua approvazione solo se avesse pagato interamente tutti i costi (legittimando quindi la sua pretesa dell’intero fiume), e non fu raggiunto alcun accordo.
Quindi, il Comitato Ministeriale Non-allineato propose un cessate il fuoco con una simultanea ritirata, con zone smilitarizzate da ambo le parti. L’Iran accettò e, per qualche tempo, anche l’Iraq. Ma Baghdad cambiò subito idea, sperando di vincere sul campo di battaglia; in nessuna di queste occasioni fu fatta pressione dall’esterno sull’Iraq per l’accordo.
Agli inizi del 1982 un altro sforzo di mediazione fu intrapreso dal governo dell’Algeria, che aveva aiutato l’Iran e l’Iraq nel trovare un accordo sui confini nel 1975, e che era anche servito da intermediario per il rilascio degli ostaggi dell’ambasciata USA.
Il 3 maggio 1982, però, l’aereo traportante il Ministro degli esteri algerino e il suo gruppo di esperti fu abbattuto da aereo da caccia iracheno nello spazio aereo iraniano. Cinque anni dopo, fu riferito che un pilota iracheno catturato avesse ammesso che l’attacco fosse stato intenzionale, con l’obiettivo di far ricadere la colpa dell’azione sull’Iran. Che questa fosse o meno la verità, l’abbattimento eliminò dalla scena uno dei mediatori più esperti.

Alla fine del maggio 1982, l’Iran aveva ripreso quasi tutto il suo territorio, e l’Iraq stava cercando di trovare un modo di uscire dalla guerra. L’Organizzazione della Conferenza Islamica e il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo Persico cercarono di mediare un accordo. Il 3 giugno, tre uomini comandati da un Ufficiale sei servizi d’informazione iracheni cercarono di assassinare l’ambasciatore israeliano in Inghilterra, con l’intento, secondo un rapporto, di provocare una invasione israeliana del Libano che avrebbe spinto i combattenti del Golfo Persico a cessare di combattersi e unirsi contro il loro nemico comune, Israele.
Israele non aveva bisogno di incoraggiamenti per marciare in Libano; sapeva benissimo che la provocazione non aveva nulla a che fare con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) o con il Libano, ma lo invase comunque, e potrebbe anche aver contribuito a far deragliare gli sforzi di mediazione.
L’Iraq offrì di far ritirare le sue forze rimanenti dall’Iran e di cessare il fuoco: seguì a Teheran un acceso dibattito se accettare l’offerta o continuare. I Mullah militanti avevano visto accrescere il loro potere durante la guerra; anche se lo Shah era stato spodestato da un ampio arco di forze politiche, la crociata contro l’Iraq aveva permesso agli integralisti religiosi di mobilitare la popolazione e di prevalere sui loro avversari politici nazionali.
Inoltre, proprio come l’Iraq aveva erroneamente assunto che l’Iran fosse sull’orlo del collasso nel settembre 1980, sembrò ora all’Iran che Saddam Hussein stesse per cadere. Khomeini decise di continuare la guerra, dichiarando che l’Iran non avrebbe cessato di combattere sino a quando Saddam Hussein fosse stato deposto, la colpa della guerra assegnata all’Iran, e pagate delle riparazioni belliche.
Il governo dell’Iran porta quindi una grande responsabilità per la morte e la distruzione che seguì. Ma, significativamente, nessuna nazione industrializzata diede all’epoca un forte supporto allo sforzo di pace.
All’interno del governo degli Stati Uniti, il Segretario di Stato Alexander Haig propose una sorta di conferenza internazionale di pace (anche se senza la partecipazione USA, e ovviamente senza la partecipazione sovietica). La proposta, ricorda Haig, “non ottenne l’attenzione della Casa Bianca”.
Haig nota che la “guerra era in quel momento ad un momento critico, con una offensiva iraniana che aveva recuperato quasi tutto il territorio dell’Iran perduto, ed è possibile che una iniziativa ben pianificata avrebbe potuto riuscire nel far cessare le ostilità”.
Il 12 luglio 1982, il Consiglio di Sicurezza si riunì per discutere il tema della guerra per la prima volta dal 1980, richiedendo un ritiro ai confini prebellici. L’Iran considerò questa una ulteriore prova della faziosità delle Nazioni Unite, poiché questo richiamo al ritiro giunse nel primo momento nella guerra quando le truppe iraniane tenevano del territorio iracheno.
L’Iraq rispose alle vittorie iraniane nella guerra di terra impiegando il suo vantaggio tecnologico: aumentò il passo della “Guerra delle petroliere”, impiegò armi chimiche, e lanciò attacchi su bersagli civili. L’Iran replicò colpendo il traffico mercantile del Golfo Persico dal 1984, e lanciando propri attacchi sui civili, anche se in scala minore che l’Iraq. L’Iran accusò il Consiglio di Sicurezza che il suo trattamento di ognuno di questi punti mostrava ostilità contro l’Iran.
Nel 1984 il Consiglio di Sicurezza fece passare una risoluzione sulla “Guerra delle petroliere” diretta principalmente contro le azioni dell’Iran, e che non faceva alcun riferimento alla condotta irachena, se non un richiamare tutti gli stati a rispettare il diritto di libera navigazione.
Riguardo alle armi chimiche, il Consiglio di Sicurezza non approvò alcuna risoluzione. Gli Stati Uniti condannarono l’uso delle armi chimiche, ma declinarono di appoggiare ogni azione del Consiglio contro l’Irak. Il Consiglio approvò nel 1985 una “dichiarazione”, di importanza molto minore, che condannava l’uso delle armi chimiche, ma senza neanche citare per nome l’Iraq; infine, nel marzo del 1986, per la prima volta una dichiarazione del Consiglio denunciava esplicitamente l’Iraq. Tuttavia, questo avveniva dopo che già da due anni era stato confermato da un team ONU il ricorso da parte irachena della guerra chimica.
Nel 1983 un team ONU riportò come ambo le parti avessero attaccato delle aree civili, ma che l’Iran avesse sostenuto dei danni più gravi dell’Iraq.
Teheran voleva che il Consiglio di Sicurezza passasse una risoluzione che indicasse la maggiore responsabilità dell’Iraq, ma il Consiglio si rifiutò di fare ciò, e non fu fatta alcuna dichiarazione.
Nel giugno del 1984, il Segretario Generale riuscì a fare in modo che le due parti acconsentissero a fermare i loro attacchi contro i civili. Le due parti presto denunciarono delle violazioni, ma i team di ispettori dell’ONU scoprirono che mentre in effetti l’Iraq stava trasgredendo l’accordo, l’Iran non lo stava facendo. Per il marzo del 1985, la moratoria era terminata.
In questo periodo, la competizione testa a testa con Mosca era ancora una considerazione cruciale per gli Stati Uniti. In una sezione di una bozza di un documento della Sicurezza nazionale, che non suscitò alcun dissenso, si diceva che gli scopi a lungo termine degli USA includevano “una fine a breve della guerra Iran-Iraq senza la mediazione sovietica”.
L’Iran rimase impegnato nel perseguimento dei suoi obiettivi di guerra maggiori, impegno non diminuito anche perché Oliver North, apparentemente senza autorizzazione, disse ai funzionari iraniani che Reagan voleva che la guerra finisse in termini favorevoli all’Iran, e che Saddam Hussein dovesse sparire.
Ma non furono solo le conversazioni non autorizzate di North a incoraggiare l’intransigenza iraniana; i traffici clandestini autorizzati tra Washington e Teheran ebbero senza dubbio lo stesso effetto.
Alla fine del 1986 esplose lo scandalo Iran-Contra, costringendo gli USA a dare un supporto incondizionato all’Iraq, in modo da preservare una qualche influenza tra gli stati arabi scossi dalle prove della doppiezza di Washington. Nel maggio 1987, l’Assistente Segretario di Stato USA Richard Murphy si incontrò con Saddam Hussein e gli promise che gli USA avrebbero guidato una mozione all’ONU per un embargo totale delle armi all’Iran; sarebbe stata proposta una risoluzione richiamante le due parti a cessare il fuoco e ritirarsi, e imponendo un embargo su chiunque non si conformasse, presumibilmente l’Iran.
Gli USA redassero una tale risoluzione, ma i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza la alterarono in modo da includere la formazione di una commissione imparziale che investigasse sulle origini della guerra, punto sul quale l’Iran aveva sempre insistito, e per eliminare le sanzioni obbligatorie.
Il 20 luglio 1987, il documento rivisto fu approvato all’unanimità come Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 598.

L’Iraq accettò prontamente la 598, mentre l’Iran dichiarò che avrebbe accettato il cessate il fuoco e il ritiro delle forze se fosse stata prima formata una commissione imparziale. Gli USA e l’Iraq rigettarono entrambi la posizione dell’Iran, affermando che l’Iran non aveva diritto di scegliere una clausola tra le molte della risoluzione e imporla quale primo passo.
Il Segretario Generale si recò quindi a Teheran e Baghdad cercando di trovare un compromesso, facendo qualche progresso. Secondo il testo trapelato del suo rapporto privato al Consiglio di Sicurezza, l’Iran acconsentì ad accettare una “cessazione delle ostilità non dichiarata” mentre una commissione indipendente avrebbe investigato sulle responsabilità per il conflitto; la cessazione sarebbe diventato un cessate il fuoco formale alla data nella quale la commissione avrebbe comunicato le sue conclusioni. Questa non era l’accettazione della 598, ma un cessate il fuoco informale avrebbe potuto significare una fine alle uccisioni esattamente come uno formale. L’Iraq, però, insistette che “in nessuna circostanza” avrebbe accettato un cessate il fuoco non dichiarato. Invece che cogliere la posizione iraniana come un primo passo verso il compromesso, gli Stati Uniti, nelle parole di Gary Sick, “spinsero risolutamente per un embargo all’Iran, resistendo agli sforzi del Segretario Generale Javier Perez de Cuellar di ottenere un cessate il fuoco di compromesso”.
“La guerra poteva terminare con un compromesso all’inizio del 1988?”, chiese Sick. “La risposta non sarà mai conosciuta, principalmente perché gli Stati Uniti non volevano esplorare l’offerta dell’Iran. La posizione USA − la suscettibilità alla percezione di una qualunque simpatia verso l’Iran − era un retaggio diretto del fiasco Iran-Contra, e potrebbe aver contribuito a prolungare la guerra per sei non necessari mesi”.
Infine, nel luglio 1988, visto anche il diffondersi in Iran di una crescente ostilità alla guerra, l’Ayatollah Khomeini decise di porre fine ai combattimenti.
Il 18 luglio, l’Iran dichiarò la sua piena accettazione della Risoluzione 598. Ma per questa data l’Iraq aveva cambiato il corso della battaglia di terra, avendo riconquistato virtualmente tutto il suo territorio, e Saddam Hussein rifiutò di accettare il cessate il fuoco. Baghdad continuò le operazioni offensive, usando armi chimiche sia contro l’Iran che contro la sua stessa popolazione curda. Fu solo non prima del 6 agosto che le pressioni internazionali spinsero l’Iraq ad accettare un cessate il fuoco, che entrò in vigore due settimane dopo. Entrambi i regimi continuarono a uccidere i propri cittadini − i curdi in Iraq, e i dissidenti, in special modo di sinistra, in Iran − ma la guerra del Golfo Persico era finita.
La guerra Iran-Iraq non fu un conflitto tra il bene e il male. Ma anche se ambo i regimi erano ripugnanti, fu il popolo dei due paesi che servì da carne da cannone, e quindi il porre fine la guerra il più presto possibile era l’imperativo umano. Invece, anziché prestare i suoi buoni uffici agli sforzi di mediazione e alla diplomazia, Washington manovrò per avere dei vantaggi, cercando di guadagnare terreno nei confronti dell’Unione Sovietica e colpire politicamente la sinistra. Gli Stati Uniti fornirono informazioni di intelligence, false e vere, ad ambo le parti, fornirono armi ad un contendente, diedero fondi a gruppi paramilitari di esuli, cercarono di assicurarsi delle basi militari, e inviarono la US Navy − e nel mentre iraniani e iracheni morivano.
Tre mesi dopo la fine della guerra, il vice Sottosegretario alla Marina da Guerra Seth Cropsey espresse la sua speranza che il risultato delle operazioni USA nel Golfo Persico dissipasse la “riluttanza americana di interporre del forze armate americane nei conflitti del Terzo Mondo quando ci sono in premio delle questioni importanti”. Chi si oppone all’interventismo USA non condivide questa speranza. Non che non ci fossero in palio delle questioni importanti; c’erano. Ma esse non erano il pericolo dell’invasione sovietica o la minaccia che le economie Occidentali potessero essere private del petrolio.
Per Washington la questione importante era se sarebbe stata in grado di mantenere lo status quo in una regione di grande valore strategico per il Pentagono e di valore economico per le compagnie petrolifere. Ma per coloro fuori dai corridoi del potere, la vera questione era, e continuerà sempre a essere, come promuovere pace, giustizia, e autodeterminazione nel Golfo Persico e altrove − e simili questioni non si prestano alla diplomazia delle cannoniere.