Da bambino, Ettore adorava i modellini di automobili, ma non trovava mai nulla sotto l’albero di Natale. Cresciuto, tre settimane prima del Natale 2019 esce dal carcere di Regina Coeli, dopo sei anni per rapina. La sua banda rifiuta di pagare ciò che gli spetta, e l’assistente sociale dalla quale ha avuto una bambina poco prima di andare in prigione rifiuta di ospitarlo. Soltanto un elegante signore che passeggia di notte sembra disposto ad aiutarlo: perché allora, pensa Ettore, non profittare di questo vecchietto dal nome evocativo – Nicola Natalizi – che vive in una villetta stracarica di addobbi e sembra (appunto: sembra) parecchio svanito?
Alla fine dell’ottobre 2020, in occasione d’un corso rincorsi l’ultima finestra prima degli imminenti “lockdown” per rivedere Roma (con la quale, da milanese cresciuto in Brianza e tornato a Milano, ho un legame morboso). Vi capitai proprio nei giorni in cui al cinema si poteva vedere “Mi chiamo Francesco Totti”, il (bel) documentario ispirato a “Un Capitano”, il libro (persino più bello) firmato dal grandissimo calciatore assieme a Paolo Condò: racconto non solo delle sue formidabili glorie calcistiche, ma anche della sua “romanità”. L’atmosfera romana, in quei giorni, era lugubre: negozi sbarrati, viali deserti (percorrere Via Nazionale riuscendo a udire i miei stessi passi fu inquietante), ristoratori angosciati, tassisti furibondi; vi furono scontri tra manifestanti anti-lockdown e polizia in Piazza del Popolo, le notizie davano per scontato che il fine settimana successiva tutta Italia sarebbe tornata alla “zona rossa”, chi si spostava era già additato come untore.
Già propenso alla malinconia, non vissi bene il documentario: saluto di un campione che aveva fatto di tutto (imbastendo una telenovela bruttissima con Spalletti, l’allenatore che con le cattive provò a convincerlo a smetterla) per rinviare il più possibile l’addio al calcio giocato; manifesto d’uno sport che non esiste più, romanzo popolare d’una vicenda irripetibile – non ci sarà mai più un altro Totti, un altro romano così legato alla Roma e soprattutto a Roma; o comunque un capitano così legato alla sua squadra e alla sua città, il calcio degli sceicchi e dei fondi americani ha programmato tutto in anticipo: questo sport non può e non deve più essere identitario.
Prima del documentario, fu proiettato il trailer di un film con Marco Giallini, il quale incontra Gigi Proietti che, come da titolo, gli dice “sono Babbo Natale”. La scena fu grottesca: le sale cinematografiche erano state aperte da qualche settimana, e già si sapeva che fra qualche giorno dopo sarebbero state ancora chiuse. Vedere il trailer d’un film natalizio sembrava una beffa. Malinconia aggravata dal fatto che Proietti è, come Totti, un grande simbolo della romanità (e gran tifoso giallorosso).
Era l’ultimo fine settimana di ottobre: l’ultimo prima del “lockdown” dell’autunno-inverno 2020. Il due di novembre, il giorno del suo ottantesimo compleanno (lui stesso scherzava sull’essere nato il Giorno del Morti), Gigi Proietti spirò, stroncato da problemi cardiaci che lo affliggevano da lungi. Rividi così Roma in televisione, seguendo il percorso del feretro dal suo Globe Theatre sino a Piazza del Popolo. La RAI trasmise anche una registrazione di “A me gli occhi, please”, il super-spettacolo inscenato da Proietti (per coprire un buco nella programmazione teatrale: ma le sei serate dovettero diventare trecento repliche), e che include “Nun je da’ retta Roma”, una delle canzoni più belle, feroci, tristi su Roma (dal film di Luigi Magni su “La Tosca”).
Non bastavano il commiato del più grande sportivo della storia di Roma, e il mancato saluto di uno dei suoi migliori artisti. Sono tornato a Roma lo scorso anno, e nel cinema di Via delle Quattro Fontane ho visto “No Time To Die”: l’ultimo film di James Bond (finito di girare poco prima della morte di Sean Connery: mito supremo di quella “mascolinità tossica” che i fighetti, i rammolliti, i nullapensanti arcobalenati e i cretini che dicono “siamo nel 2021, mica nel Medioevo”, gli imbecilli che predicano i diritti civili e le mezze calze con le spalle strette che fanno lavori col nome in inglese – social media manager, counselor di chissà che, consultant di chissà che altro, vattelapesca planner – pretendono di schiaffare in cantina), che esaspera il suo rapporto col tempo (orologi, conti alla rovescia, Louis Armstrong che canta “We Have All the Time in the World”… cinque anni trascorsi lontano dalla donna amata, e senza aver potuto veder nascere la loro bambina – il che è molto simile a quel che succede a Ettore in “Io sono Babbo Natale”) e si congeda dal suo pubblico: ponendo fine a un’epopea, un immaginario, un enorme bagaglio di immagini, volti (non per nulla li si vede svanire sui titoli di testa); un piccolo mondo antico spazzato via dalla prepotenza e dall’arroganza del mondo nuovo, degli smemorati che spazzano via la storia, i mafiosi (mentre rovinano il mondo dicono che non sta succedendo nulla…) della “cancel culture”.

Questi due autunni romani non erano stati abbastanza crepuscolari: sono tornato ieri a Roma, e in un cinema c’era “Io sono Babbo Natale”. Ho ripetuto il rito, perché sono ossessionato dai ricordi, dalla memoria (il libro “Un Capitano”, di Totti, e “Ndo cojo cojo”, raccolta postuma di appunti di Proietti, donati da mia madre, sono per me come la Sindone): nel mio piccolo, provo ad arginare l’avanzare dei cancellatori, dei tantissimi minuscoli carnefici del Nulla deprecato da Michael Ende. L’ho fatto per percorrere il sentiero delle coincidenze significative, che già mi hanno fatto partecipare al film di Pupi Avati “Lei mi parla ancora”: diretto da un regista ossessionato anch’egli dai ricordi e dalla memoria (“Regalo di Natale”: Franco, il personaggio di Abatantuono, non vive il momento della celebre partita di poker, perché continua a vedere flashback), racconta d’un uomo che, rimasto vedovo, sceglie consapevolmente di restare nel passato: e ricordare, rammentare e raccontare (a un “uomo nuovo”, che si stupisce del fatto che nel piccolo mondo antico esistesse l’amore: ahinoi la “cancel culture”, con la banalizzazione dell’affettività e la sua esibizione via “social network”, ha distrutto anche questo – ma non si può dire, i cancellatori cancellano e pretendono che non si dica che lo fanno.
Alla televisione ho poi visto una gara di cucina, l’episodio era dedicato all’amore; uno dei concorrenti, lo stereotipo del secchione imbranato, ha ribadito la cretinata tanto diffusa tra i “nerd” su internet, secondo cui l’amore è soltanto una reazione chimica scatenata dall’esigenza del corpo di ottenere l’ormone della dopamina – lo scientismo straccione degli psicologi sotto-istruiti che credono alla spiegazione organicistica del funzionamento della mente umana ha portato a questa spoliazione della dignità umana, a questa de-spiritualizzazione che serve ai cretini per ridurre il mondo alla loro, minuscola, dimensione; un mondo in cui i sentimenti non hanno posto, e le emozioni si gestiscono con farmaci che distruggono i neuroni e, di conseguenza, la memoria – che l’uomo nuovo non è tenuto ad avere).
Gigi Proietti ci parla ancora: e la sorpresa di questo autunno è che il suo ultimo film poteva sembrare (quando ancora non si sapeva che era l’ultimo) una strenna fra le tante (nel frattempo sarebbe dovuto uscirne uno con Diego Abatantuono e Fabio De Luigi dalla trama quasi identica), ed è invece un film graziosissimo (anche grazie alla presenza di Barbara Ronchi), soave senza essere stucchevole: diverte tanto da far passare sottotraccia qualche sciatteria nella sceneggiatura e la solita recitazione televisiva degli attori di contorno (negli scorsi decenni, le scuole di cinema hanno fatto disastri in entrambi i settori): entrambe comunque di livello molto superiore all’offerta media.
Il cinema italiano è in evidente ascesa: nonostante cretinate immani (non si può dare a Germano che fa i versacci il David di Donatello, come se nello stesso anno Favino non avesse registrato con “Hammamet” una prova a dir poco da antologia e Pozzetto si fosse scoperto ottimo attore drammatico dopo oltre mezzo secolo a fare altro), con buona pace dei soliti Moretti-Comencini-Ozpetek-Lucchetti che ripetono in continuazione le menate famigliari della borghesia romana di cachemire rivestita, facendo buon viso al cattivo gioco delle caricature di Hollywood (dalla stupidità dei titoli in inglese, a Carrisi con le sue bruttissime caricature dei film sui serial killer), le idee non mancano, i registi coraggiosi (sperando di liberarsi del culto del tizio di “La grande bellezza”) neppure. Fare un film su Babbo Natale a Roma significa affrontare: il rischio di cadere nella caricatura e nella banalità; quello di scadere nella “americanata” (puntando magari sulla spettacolarizzazione); la derisione di chi si ferma appunto al “film su Babbo Natale a Roma” e passa oltre (stupidamente). Il regista Edoardo Falcone (come già Pupi Avati quando realizzò “Zeder”: un film sugli zombie a Milano Marittima!) è stato coraggioso e molto bravo, non si è intimorito e ha saputo portare in scena una bella commedia, che soprattutto è una fiaba. Cattivissima la citazione da un trascorso fiabesco di Proietti (il genio della lampada, doppiato nel cartone animato della Disney “Aladdin”).
Ancor più, è un’occasione per salutare l’ultimo grande mattatore di Roma. Gigi Proietti era un genio, oltre a essere il commediante perfetto: colto, dotato d’un repertorio vastissimo, mimetico, versatile. Il suo portamento era splendido, tanto più che invecchiando era diventato un signore bellissimo (non sembrava di riconoscere lo sgraziato e volgarotto Mandrake di “Febbre da cavallo”), e soltanto la voce di Vittorio Gassman era accostabile alla sua; gli si perdonavano cose tediose come “Il maresciallo Rocca”, ma anche quando partecipava a operazioni mediocri sapeva essere grandioso: una delle sue scene più riuscite (assieme alla storiella di “er cavajere bianco e er cavajere nero”, e alla rievocazione delle poesie lette atrocemente dai suoi insegnanti di liceo) è tratta da “Un estate al mare” di Carlo Vanzina: commedia a episodi molto brutta, ma chiusa da Gigi Proietti nei panni del micidiale doppiatore Giulio Bonet (ispirato a una gag di Dino Verde), che interpreta il conte Duval a teatro ma, non ricordando nessuna battuta, devasta una rappresentazione di “La signora delle camelie”.
Nei primi momenti di “Io sono Babbo Natale”, quando Ettore (il personaggio di Giallini) si ostina a non credere alla sua dichiarazione d’essere Babbo Natale, lo spettatore si può chiedere: come fa a non crederci?