Per capire l’importanza dei referendum sulla giustizia, e quindi del voto di domenica prossima, bisogna fare un passo indietro di una trentina di anni e tornare al crollo della cosiddetta Prima Repubblica quando la magistratura, supplendo al malfunzionamento delle istituzioni soffocate dalla partitocrazia di allora, assunse un ruolo politico (in senso lato).
Fu allora che saltò l’equilibrio tra il potere giudiziario e quello politico, o meglio legislativo, creando i presupposti per i guai e i problemi che abbiamo visto proliferare in questi anni.
Ricordiamo tutti, e molti allora applaudirono ed approvarono, l’immagine del Procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli che, circondato dai suoi sostituti, si rivolgeva via TV al popolo facendo pressione per evitare che Governo e Parlamento adottassero un provvedimento di legge da lui considerato iniquo. O il famoso appello a “resistere, resistere, resistere” contro una parte politica da lui non apprezzata.
Intendiamoci, il sistema partitocratico di allora era degenerato, indifendibile e già da tempo in decomposizione, superato dalla storia e dai fatti, ma in un sistema istituzionale sano e funzionante non sarebbe certo spettato alla magistratura occuparsi della sua liquidazione.
Liquidazione che, con piglio e metodi giacobini, assieme a politici più o meno corrotti e partiti a fine corsa, ha finito per picconare anche il fondamentale principio della separazione dei poteri legittimando incursioni ed interferenze sempre più invasive di una magistratura sempre più politicizzata, per via delle correnti e delle porte girevoli con le carriere politiche, nelle decisioni politiche, di governo (come si è visto, ad esempio, nel caso dei processi a Matteo Salvini per la questione delle navi ONG) e persino, attraverso l’uso strumentale del ruolo del CSM e l’invasività della ANM, del legislatore.
Nel vecchio assetto della Prima Repubblica la separazione assoluta dei due poteri, legislativo e giudiziario, era garantita da una parte dall’istituto dell’immunità parlamentare, dall’altra dall’indipendenza e dall’autogoverno.
Il pessimo uso che la politica aveva fatto di quell’istituto, che aveva finito per proteggere le malefatte dei partiti più che la loro autonomia, portò alla sua abolizione a furor di popolo senza che fossero predisposti meccanismi alternativi alterando irrimediabilmente gli equilibri istituzionali. In pratica insieme all’acqua sporca si gettò via anche il bambino.
Non che il problema non esistesse anche prima, basti ricordare l’episodio del 1985 quando Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, mandò al CSM, che lui riteneva avesse assunto posizioni “eversive” in opposizione al parlamento, i Carabinieri. Una decisione oggi impensabile.
E’ questo il contesto nel quale si inseriscono i 5 referendum, ovvero il tentativo di mettere qualche pezza ad un sistema che da tempo fa acqua da tutte le parti. Non sono certo casuali il silenzio mediatico e politico che li circonda e nemmeno le esternazioni del giullare di turno, vedi Littizzetto, dirette a boicottarli.
Tre quesiti tentano di andare al cuore del problema: prima di tutto quello sulla separazione delle carriere (3). Per un’anomalia tipicamente italiana gli stessi magistrati possono passare senza nessun filtro e anche più volte dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa. Una contiguità problematica che contraddice il principio di separazione tra accusa e giudizio favorendo uno spirito corporativo tra due figure che dovrebbero essere fisiologicamente impermeabili.
Una prospettiva da sempre sempre fortemente osteggiata da una magistratura timorosa di dividersi e quindi di perdere peso e potere.
Poi quello sulla riforma del CSM (5) che, come ha dimostrato il caso Palamara (indifendibile, ma semplice capro espiatorio il cui sacrificio ha lasciato tutto come prima), è in mano a correnti organizzate che, come veri e propri partiti dei magistrati, ne influenzano le decisioni, intervengono per favorire le carriere degli affiliati o l’attribuzione di incarichi importanti, decidono trasferimenti, assegnazioni e promozioni in una logica spartitoria e consociativa nella quale le decisioni sono concordate e distribuite più per appartenenza o equilibri politici che per merito o capacità.
Infine il referendum sulla equa valutazione dei magistrati (4); oggi professionalità e competenza dei magistrati sono valutate dal CSM (vedi sopra) che decide sulla base di valutazioni fatte anche dai Consigli giudiziari, organismi territoriali nei quali la materia è competenza esclusiva dei membri della magistratura, con una autoreferenziale sovrapposizione tra valutati e valutatori che finisce, ancora una volta, per favorire la logica corporativa. Il referendum intende estendere anche ai rappresentanti dell’Università e dell’Avvocatura presenti nei Consigli giudiziari la possibilità di intervenire nelle valutazioni.
Restano poi il referendum sull’abolizione della Legge Severino (1) ai sensi della quale chi ricopre incarichi politici (parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci ed amministratori locali) diventa incandidabile, ineleggibile e decade automaticamente in caso di condanna anche non definitiva e con effetti retroattivi. Una norma sommaria e sbrigativa, adottata sulla spinta della demagogia antipolitica, la cui applicazione ha creato molti problemi e anche diverse ingiustizie. L’approvazione del quesito referendario abolirebbe ogni automatismo permettendo una valutazione approfondita caso per caso.
Resta, infine, il quesito sui limiti della custodia cautelare (2) sul quale è effettivamente difficile prendere posizione. Perchè è vero che il carcere preventivo è una pratica di cui si abusa e che ha finito per diventare non uno strumento eccezionale ma una vera e propria ingiusta anticipazione della pena che spesso ha colpito imputati poi assolti. Ma è altrettanto vero che ciò più che dalla norma dipende dall’applicazione, troppo disinvolta, che spesso se ne fa. Limitarsi a limitare la custodia cautelare significherebbe creare un automatismo contrario che finirebbe per ottenere effetti opposti altrettanto distorti.