“Nuove tirannie. La libertà non è per sempre” è il titolo sul giornalone di via Solferino dell’editoriale di Antonio Polito, minato da omissioni clamorose, da esagerazioni altrettanto eclatanti e catastrofismi ingiustificati.
Il giornalista, di frequente lucido e determinato, apre inneggiando per la loro lotta di libertà ai “ragazzi di Hong Kong”, a quelli berlinesi, che 30 anni fa la “conquistarono”, “prendendo a picconate il Muro”, e a quelli di Pechino, “schiacciati invece sotto i cingoli dei carri armati a Piazza Tienanmen”. Si domanda poi se una sorte analoga, favorevole quanto significativa, arriderà ai coetanei, ma non solo a loro, dell’ex colonia britannica sotto l’incubo del soffocamento cinese.
Polito, per oltre mezzo colonna della nota, sfugge alla definizione politica dei responsabili delle tre drammatiche pagine da conservare salde nella memoria. Solo dopo, come si sarebbe detto anni or sono, “tanto piombo tipografico”, riesce a parlare di “capitalismo comunista”.
E’ troppo facile prevedere l’altissimo numero di passaggi, ove si fosse avuta una anche lontana ipotesi di matrice di destra, in cui Polito avrebbe demonizzato, ricorrendo a mille sinonimi, l’idea portante ed i rei … fino alla settima generazione.

Prima di fornire indicazioni e numeri, prosegue osservando che “la libertà non va più molto di moda neanche tra i giovani dell’Occidente” ma non si dedica nemmeno di sfuggita alla immancabile e doverosa denunzia delle responsabilità e delle colpe, accumulate per decenni, dei partiti e dei movimenti egemoni nell’Occidente, tutti di sinistra, radicale o cattocomunista.
Polito constata che “negli ultimi 15 anni i diritti individuali si sono ristretti in 71 paesi del mondo” ma è ben lontano dal ripercorrere criticamente le omissioni, la latitanza e l’inconsistenza delle divinizzate quanto inutili organizzazioni internazionali, in prima linea l’ONU.
Polito, accodandosi ai tanti, troppi sostenitori della “Via della Seta”, un vero e proprio suicidio per il mondo occidentale, tace sulla assenza assoluta di democrazia in Cina, e parla dei “molti paesi nel mondo nei quali si vota [in maniera farsesca], ma non c’è libertà”, fornendo un succinto elenco (Russia, Iran, Turchia) .
L’epilogo è aperta da un’ammissione, avvilita dal tradizionale camuffamento ideologico: “trent’anni fa ci siamo rilassati, assistendo allo spettacolo dei popoli soggetti al tallone sovietico [!!], che si ribellavano in nome della libertà”.
Invece, in questi mesi, constata desolato Polito, “da quella parte dell’Europa, dall’Ungheria come dalla Polonia, soffia un vento opposto”. Si dimentica di riconoscere che esso è determinato e sostenuto da inoppugnabili appoggi elettorali.
Nelle battute conclusive, prima della “morale”, osserva che in Italia, Francia e Gran Bretagna nelle elezioni europee “sono arrivati primi partiti, certamente non liberali”. Ma, senza condividerne e avallarne assolutamente la linea, chi scrive riconosce che il consenso da loro raccolto è pienamente legittimo, e quindi incontestabile.