Ne abbiamo già scritto (“Schiaffi, noia e Jessica. Quel che resta degli Oscar”, 4 aprile): la serata degli Oscar del 2022 ha fatto notizia per l’imbarazzante siparietto tra Chris Rock (il presentatore della cerimonia, che aveva scherzato sull’alopecia dell’attrice in disarmo Jada Pinkett Smith) e Will Smith (marito della suddetta; dopo aver riso, lo ha ricompensato con un ceffone e un paio di parolacce). Il fatto più importante è però un altro: la statuetta di miglior attrice protagonista a Jessica Chastain (le sue concorrenti erano due attrici bravine – Olivia Colman e Nicole Kidman – e due mediocri – Penelope Cruz e Kristen Stewart). Che sia premiata la candidata migliore non è affatto da darsi per scontato: la stessa Chastain aveva subito due smacchi: nel 2012 era candidata a miglior attrice non protagonista per “The Help”, ma per ovvi motivi di propaganda politicamente corretta le fu preferita (per lo stesso film) Octavia Spencer (tutt’altro che eccelsa, ma “black”); l’anno dopo, candidata a protagonista per “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow (tutt’ora il suo miglior film e il suo miglior ruolo), vide la statuetta assegnata a Jennifer Lawrence (“Il lato positivo”): uno dei verdetti più cretini nella già florida rassegne di vergogne dell’Academy – da “Rocky” miglior film a discapito di “Taxi Driver” a Christopher Plummer miglior attore non protagonista al posto di Max von Sydow, passando per Al Pacino candidato nove volte e premiato una volta sola, e per giunta per uno dei film più brutti della sua carriera (“Scent of a Woman”).
Jessica Chastain ha insomma avuto la stessa sorte di Al Pacino (con il quale nel 2011 ha girato il documentario “Salomé”, seguito ideale di “Riccardo III”): ignorata per i suoi film migliori (“Take Shelter”, “The Tree of Life”, “Miss Sloane”, “Molly’s Game”) e beffata per la vetta della sua carriera (“Zero Dark Thirty”), ha finalmente ricevuto il premio, per il suo ruolo da protagonista nel mediocre biopic “Gli occhi di Tammy Faye” (da lei anche prodotto, come l’immediatamente successivo “Secret Team 355” – sinora il nadir della sua carriera).
Da una storia vera: Tammy Faye Messner (1942-2007) cresce con la madre e il patrigno nel Minnesota, emarginata dalla comunità pentecostale perché figlia di divorziati. Cresce comunque con una religiosità fanatica, e quando al college incontra Jim Bakker, protestante fervente quanto lei, il fidanzamento è immediato. Nonostante la povertà di mezzi, la coppia pensa in grande: dagli spettacolini itineranti con predicazioni per bambini passano alla televisione, dove prima partecipano alla fondazione del “Club dei 700”, poi si mettono in proprio con “The Praise the Lord Club”. Il successo è travolgente: le trasmissioni diffuse via satellite della coppia fanno furore in tutti gli USA, con la loro micidiale formula di prediche non proprio convincenti, canzoni imbarazzanti, balletti brutti, vestiti e scenografie kitsch e ricette; Tammy Faye scandalizzerà i colleghi, con interviste a sessuologi e a uno dei primi ragazzi gay sieropositivi.
Due i loro temi preferiti: Dio vuole che i Suoi devoti siano ricchi; Dio ama tutti, anche gli omosessuali (approvato dai colleghi il primo, tutt’altro gradimento per il secondo). L’impero dei coniugi però sarà travolto dalla loro terrificante stupidità, dai vizietti di Bakker, dalla loro incapacità di tenere i conti, dal loro delirante progetto d’una “Disneyland cristiana” e dalla rapacità dei concorrenti: Jerry Falwell e colleghi – meno spettacolare di Faye & Bakker, ma ben più abili sul piano concreto – avranno gioco facile a distruggere il PTL Club. Tammy Faye finirà i suoi anni nello squallore, cercando ostinatamente visibilità con la cronaca della sua lotta col cancro al colon (che la stroncherà dopo undici anni); il marito sarà condannato (per le frodi fiscali, ma non per le molestie sessuali) a quarantacinque anni di carcere, poi ridotti a otto e infine a cinque (durante i quali Tammy Faye otterrà il divorzio e sposerà Roe Messner), e nel 2003 ricomincerà le sue grottesche prediche.

Già comico televisivo, nella sua ventennale carriera il regista Michael Showalter (“Gli occhi di Tammy Faye” è il suo ottavo film) non si è mai distinto: questo film, che nelle intenzioni doveva essere la sua opera maggiore, dimostra il perché. Non è un film d’autore, e si vede: non c’è nessuna cifra autoriale, è l’ennesimo biopic “rise & fall”. Sarebbe un film banale, non fosse per la coloritura dei personaggi: con i loro versetti, i loro urletti, le loro sceneggiate, le loro meschinità però i due protagonisti si alienano sin da subito le simpatie dello spettatore.
“Gli occhi di Tammy Faye” è sin dalle premesse un film sbagliato: d’accordo che a Tammy Faye va dato credito che predicava in televisione un principio sacrosanto quale la tolleranza nei confronti degli omosessuali quando dirlo in pubblico non era affatto facile (quando insomma il cartello LGBT non aveva ancora militarizzato l’opinione pubblica e colonizzato l’industria dello spettacolo); da qui a fare l’apologia di un personaggio che assieme al marito a creato un impero truffaldino ne passa – infatti il film non è stato per nulla apprezzato in patria: né dal pubblico, né dalla critica, che si è spesa in elogi soltanto per la performance della Chastain e per i truccatori. Se fuori degli States la vicenda di Tammy Faye dice poco o nulla, per l’opinione pubblica a stelle e strisce ha avuto un impatto simile a quello che la grottesca storia di Wanna Marchi ebbe su quello italiano: si immagini quale successo potrebbe riscuotere un film nostrano che simpatizzi con la Marchi, sua figlia Stefania Nobile e magari persino col loro socio, l’improbabile “mago” Do Nascimento.
“Gli occhi di Tammy Faye” funziona su di un livello solo: la rappresentazione di quel microcosmo di stupidità, pacchianeria, caricatura della teologia, grettezza e cattiveria che è il protestantesimo (e, persino peggio, quello statunitense). A parte ciò è un film banale e tedioso, nel quale si salva solo il cast: superbi i due protagonisti, Jessica Chastain e Andrew Garfield (ben degno di liberarsi del ruolo di Uomo Ragno); bella prova anche del redivivo Vincent d’Onofrio (per una volta sotto le righe, senza le sue solite gigionerie); bravi anche Cherry Jones e Fredric Lehne (la madre e il patrigno di Tammy Faye).
Notevole il trucco e parrucco con cui Linda Dowds, Stephanie Ingram e Justin Raleigh (premiati con l’altro Oscar ricevuto dal film) hanno trasformato la bellissima Jessica Chastain nella non proprio graziosa (ci perdoni) Tammy Faye: tanto drastica è stata però la trasformazione, da danneggiare la pelle del volto della diva. Oltre ad avere prodotto il film ed essersi sottoposta all’invasivo make-up, Jessica Chastain ha reinterpretato quasi tutte (sette su nove) le canzoni incluse nella colonna sonora.,