Irinsherin, isoletta (immaginaria) prospiciente l’Irlanda, anni ’20 del secolo scorso: Padraic (Colin Farrell) è un sempliciotto che divide la sua vita tra il pascolo e il pub, e ha tre grandi affetti: la sorella Siobhan (Kerry Condon), unica portatrice di cervello in tutta l’isola, l’asinella Jenny e l’amico Colm (Brendan Gleeson), “violinista panciuto”. Proprio quest’ultimo distrugge la serenità di Padraic, rifiutando di parlargli ancora: il pastore “non gli va più a genio”, chiacchierare con lui gli sembra una perdita di tempo. Padraic non se ne fa una ragione, e Colm risponde con un ricatto autolesionista e delirante: la stolidità d’entrambi porterà, nonostante gli sforzi di Siobhan e dello “scemo del villaggio” Dominic (Barry Keoghan) di riportare un minimo d’armonia, a una serie di conseguenze variamente tragiche.
Candidato al Leone d’Oro alla mostra di Venezia dello scorso anno (dove Farrell ha ricevuto la Coppa Volpi), “The Banshees of Irinsherin” (titolo della musica per violino che Colm sta provando a comporre: sciocco, banale e fuorviante quello italiano, “Gli spiriti dell’isola”) si presenta ai prossimo Oscar con nove candidature, tra le quali: film, regia (Martin McDonagh) e quattro nomination alle interpretazioni: attore protagonista (Farrell), attrice non protagonista (Condon), attori non protagonisti (Gleeson e Keoghan – Dominic).
Potrebbe essere il film della vita per Farrell, irlandese belloccio che ha diviso la sua carriera tra mediocrità hollywoodiane (“Minority Report”, “La regola del sospetto”, “Alexander”, “Parnassus”, “Dumbo”) e film indipendenti non sempre validissimi (a parte l’acuto di “Miss Julie”, con Jessica Chastain, diretto non proprio benissimo da Liv Ullmann) quando non addirittura abominevoli (Farrell è stato protagonista di due film di Yorgos Lanthimos – forse per questo l’asina che interpreta Jenny lo ha scalciato sul set). Assieme al connazionale Brendan Gleeson (attore feticcio di John Boorman: “The General”, “Il sarto di Panama”, “In My Country”, “The Tiger’s Tail”), Farrell aveva già interpretato il primo lungometraggio di Martin McDonagh, “In Bruges – La coscienza dell’assassino”. È comunque il film del riscatto per Kerry Condon, che dopo aver esordito nell’avvilente “Le ceneri di Angela” (dove interpretava una ragazzina che muore di tisi) aveva trovato spazio in telefilm spazzatura (“Rome”, “The Walking Dead”, “Better Call Saul”) e, peggio ancora, in un film di Sorrentino (“This Must Be the Place”): il suo personaggio, pur essendo il solo per il quale si possa simpatizzare, è comunque uno stereotipo (la ragazza intelligente, energica e persino bella che lotta da sola contro un paesino popolato da babbei e luoghi comuni viventi si è già vista in chissà quanti film e romanzi); come un po’ lo sono anche due personaggi di contorno che andavano giocati meglio (il prete che confessa con aggressività Colm, e la signora McCormick, uccellaccio del malaugurio che si aggira vestita come la Morte del “Settimo Sigillo” di Bergman). Peadar (Gary Lydon), poliziotto prepotente, violento e latentemente pedofilo, padre del disgraziatissimo Dominic, è uno di quei personaggi che lascia addosso allo spettatore un raccapriccio molesto. Cameo di Lasairfhiona Ni Chonaola, cantautrice delle isole Aran.
“Gli spiriti dell’isola” è un bel film irrisolto: avrebbe potuto essere qualcosa in più, Martin McDonagh oltre a dirigerlo bene (evitando, come succede spesso nei film sull’Irlanda, di scadere nelle inquadrature-cartolina: i paesaggi sono belli, ma McDonagh ha l’intelligenza di non perdervisi) ha scritto dialoghi che rasentano la perfezione, con alcuni momenti geniali. Delle questioni girano a vuoto: alcune sono dettagli (Siobhan dice che i libri sono tutto ciò che ha: ma a parte uno che sta leggendo, in tutte le inquadrature della sua casa non se ne vedono), altre riguardano il “quid” del film (se Colm è tanto angosciato dall’impiegare con profitto il tempo che gli resta, perché lo si vede sempre sfaccendato?).

È un film sull’Irlanda assai migliore di quello che ha fatto clamore alla scorsa edizione degli Oscar (l’accomodante, cerchiobottista “Belfast” di Branagh), oltre a essere un’opera molto originale sull’assurdità. Mentre pullulano orribili serie tv che mettono in scena il solipsismo, il cinismo, il narcisismo con compiacimento, “Gli spiriti dell’isola” è un nuovo modo di vedere l’incapacità di comunicare: in telefilm come “Game of Thrones” e operazioni affini, Colm (che anticipa di quasi un secolo certi motti che spopolano su internet riguardo il “selflove”) sarebbe un protagonista “positivo”; qui invece è mostrato come il personaggio più stupido – più del sempliciotto, “noioso” Padraic (mai castigo fu più immeritato), più del ritardato, infelicissimo Dominic (dapprima detestato da Siobhan, poi il solo che riesca a farla sorridere), nobilitati dalla disperata ricerca di affetto. Colm invece si nasconde dietro una pretesa di superiorità che crolla di fronte ai fatti (si ritiene migliore di Padraic perché, a differenza sua, sa chi fosse Mozart; non fosse che Siobhan lo sbugiarda, mettendolo di fronte al fatto che nemmeno lui ne sa tanto; per non dire della scemenza del titolo che sceglie per la sua musica – due parole con “sh”). Colm ragiona come Sartre, crede che l’inferno siano gli altri: e, come Sartre, pur spacciandosi per luminare, crea soltanto infelicità, spandendola a piene mani e inquinando i pozzi.