Il referendum greco, su cui “Destra.it” ha già pubblicato molti importanti commenti, nasce dalla questione del debito pubblico (ingente per l’economia di quel Paese, ma assai minimo rispetto a quella europea) che il governo di Atene non riesce a rimborsare se non ricorrendo ad una quasi totale sospensione della spesa sociale e civile pubblica per poter pagare interessi e rimborsi del debito.
Tutta l’attenzione dei media e dei commentatori si accentra su questa questione: l’ammontare del debito pubblico greco, la sua crescita nel tempo, le difficoltà nella restituzione, le banche o le pubbliche istituzioni degli altri Paesi europei coinvolte.
Però nessuno si domanda perché in Grecia, ma anche in Italia ed in tanti altri Paesi europei, vi sono debiti pubblici così elevati: debiti, peraltro, costituiti in prevalenza dall’accumulo negli anni degli interessi (che sono rimborsati solo emettendo altri titoli di debito) e senza visibili ricadute sulle economie nazionali in termini di grandi opere pubbliche, miglioramento dei servizi sociali, sviluppo economico e maggiore occupazione. Anzi, avviene il contrario: nella vana illusione di diminuire il debito con le riduzioni della spesa pubblica, il territorio e le infrastrutture si deteriorano, gli aiuti allo sviluppo economico e produttivo vengono cancellati, gli addetti ai pubblici servizi diminuiscono con difficoltà nella loro esecuzione, le retribuzioni e le pensioni sono bloccate, i consumi si limitano all’essenziale. Insomma, si entra in quel tunnel chiamato recessione o deflazione.
Ecco, deflazione: parola che è l’esatto contrario d’inflazione.
Ed è qui che a nostro parere sta l’origine della crescita senza fine dei debiti pubblici europei. Il sistema monetario europeo prima e l’Euro poi furono progettati su istigazione della Germania e degli economisti da essa influenzati con l’unico scopo di tenere assai bassa, ed eliminare del tutto, l’inflazione. Termine che, ricordiamo, significa “espansione” della massa monetaria in circolazione la quale provoca successivamente rialzo dei prezzi e delle retribuzioni.
Sanzione di questa visione economica fu l’accordo di Maastricht in cui fu stabilito un tetto massimo del 3% annuo di deficit del bilancio pubblico. Da quella data, febbraio 1992, iniziò il periodo di progressiva crisi finanziaria ed economica di molti Paesi europei costretti a stare entro quei limiti di bilancio.
Ma questo non bastava: nonostante gli impegni presi a Maastricht e negli accordi successivi, i Paesi europei continuavano ad avere il potere di emettere la loro moneta nazionale, la cui quantità di emissione nessuno poteva controllare.
Allora si passò alla fase successiva: si istituì l’Euro, moneta comune europea, circondandola di elogi e di promesse per il miglioramento delle condizioni di vita degli europei. Ma questa moneta non era più un oggetto di conto come il vecchio “ECU” (unità di conto europeo) utilizzato negli scambi intracomunitari. No, era una moneta vera e propria, emessa però da un’istituzione di diritto privato che si chiama “Banca Centrale Europea”, nelle quantità che essa decide e che assegna ad ogni Stato che l’ha accettata.
Qual è allora il problema, per tornare all’inflazione? Prima, uno Stato in crisi di liquidità poteva – anziché emettere titoli di debito su cui era costretto a pagare interessi – stampare moneta nella quantità ritenuta necessaria per finanziare opere pubbliche, incrementare le retribuzioni, contribuire a finanziare le aziende nazionali sia per il loro sviluppo sia per sopperire a difficoltà. Insomma, si gestiva l’economia nazionale immettendo le quantità di moneta necessarie.
Certamente così si creava l’inflazione, ossia una perdita di potere di acquisto della moneta ed una conseguente crescita dei prezzi e delle retribuzioni per recuperarlo. Però gli economisti un tempo c’insegnavano – pensiamo a Schumpeter, Keynes, Pantaleoni ed a tanti altri – che una modesta crescita dell’inflazione di qualche punto percentuale avrebbe favorito lo sviluppo economico, i consumi e la conseguente occupazione: fra l’altro, parte della moneta emessa in eccesso sarebbe stata recuperata con le imposte ed i consumi pubblici.
Ma soprattutto questo sistema aveva il vantaggio di NON pagare interessi, ma la sola spesa per la stampa di carta moneta.
Domandiamoci allora: chi usciva danneggiato da questo sistema? Una sola categoria, quella delle banche che non potevano più lucrare sugli interessi sul debito pubblico da loro acquistato, un capitale che poi avrebbero prestato ai privati a tassi ancora più elevati…
Ed ecco scatenarsi tutti gli economisti ed i giornalisti al servizio delle banche a dire che l’ìnflazione è il peggiore dei mali, che manda in rovina gli Stati ed i cittadini, che occorre porre vincoli all’emissione della moneta, anzi eliminarla del tutto, che ci pensano loro a finanziare i deficit, ecc. ecc.
Evidentemente gli Stati moderni, che hanno una ramificazione consolidata di servizi civili e sociali pubblici, non potendo più gestire autonomamente la liquidità finanziaria, hanno dovuto ricorrere alle banche chiedendo prestiti in cambio di titoli di debito su cui gravano congrui interessi.
Se si sottraesse dagli ammontari dei debiti pubblici il capitale iniziale (diciamo vent’anni fa?), vedremmo che l’aumento esponenziale è dovuto al costo accumulato e rinnovato degli interessi passivi: una specie di enorme “anatocismo” a livello continentale….
Quei finanzieri che dirigono il mondo, per dirla con una frase di Henri Coston, hanno ancor di più stretto la corda (si può dire?) al collo degli Stati debitori facendo inserire nella Costituzione – documento le cui modifiche sono rare e complesse – l’articolo che obbliga al pareggio obbligatorio di bilancio, così come ha fatto l’Italia commissariata dal prof. Mario Monti, senatore a vita di nomina “napoletana”, il 20 aprile 2012.
Quindi, anche ipotizzando un abbandono dell’Euro ed un ritorno all’emissione autonoma della propria moneta, uno Stato come l’Italia ad esempio deve o continuare la politica di austerità per restituire il debito ed i relativi interessi o ricorrere sempre alle banche per ottenere denaro in cambio di titoli di stato e dei relativi interessi.
Quindi questa, a nostro parere, è la situazione: l’eliminazione forzosa dell’emissione di moneta nazionale costringe gli Stati ad indebitarsi ed a pagare i relativi interessi, a danno della spesa sociale e civile della Nazione.
Un’ultima osservazione. Si fa risalire, falsamente, questo timore dell’inflazione a quella enorme ed indescrivibile che subì la Germania nel primo dopoguerra. La Germania, si dice, rimase scioccata perché quella situazione favorì l’ascesa del nazionalsocialismo, il “male del secolo” da evitare a tutti i costi.
Noi pensiamo che questa sia stata una giustificazione emotiva per favorire il ruolo della banche quali prestatori delle finanze statali. Ma ammesso che sia esatta, domandiamo alla stessa Germania che aveva quei timori: non pensa, la signora Merkel ed il suo ministro delle finanze, che l’austerità imposta nell’ultimo decennio che ha creato povertà, disoccupazione, crisi aziendali, regresso dei servizi pubblici, progressiva eliminazione delle tutele sociali, non creino a loro volta movimenti di protesta simili a quelli della Germania degli anni venti e trenta? Quanto c’è, per tornare alla questione greca, di veterocomunismo (come qualche commentatore si ostina a dire) nel movimento di Tsipras e quanto invece c’è di socialismo nazionale con esibizione di bandiere nazionali, appelli all’orgoglio nazionale, assistenza sociale di massa, difesa della dignità di Stato? Tanto più che il referendum è stato sostenuto anche da un movimento politico che si chiama “Alba dorata”….