Cade in questi giorni il 26° anniversario dell’eccidio di Srebrenica, un episodio sconvolgente e mai adeguatamente ricordato, della recente storia europea che a 50 anni dalla fine della II Guerra Mondiale ha riportato in un’Europa sazia e distratta la crudeltà efferata delle stragi titoiste, lo spietato modus operandi degli Einsatzgruppen nazisti, i fiumi di sangue delle guerre balcaniche di inizio ‘900. Un genocidio su base etnico-religiosa che dal 13 al 16 luglio 1995 ha bruciato la vita di 8.372 persone, quasi tutti maschi musulmani bosniaci il più giovane dei quali aveva 11 anni e il più vecchio 78.
Ad oggi 81 fosse comuni, solo 8 delle quali direttamente legate ai massacri e le restanti scavate successivamente per tentare di occultare i fatti disperdendo i cadaveri, hanno restituito i resti di quasi 7.300 vittime identificate. Si cercano ancora quelli di un migliaio di dispersi ufficiali, mentre continua la paziente opera di identificazione dei resti rimasti ignoti. Un orrore col quale l’Europa non è ancora riuscita a fare i conti fino in fondo. Come e perché è potuto accadere?
Srebrenica si trova in Bosnia Erzegovina nella media valle della Drina vicino al confine con la Serbia in un’area nella quale la maggioranza etnica era da sempre musulmana: il 75% a Srebrenica, il 64% a Bratunac, il 55% a Vlasenica, il 60% a Rogatica e il 63% a Višegrad secondo il censimento del 1991.
L’area, però, era di fondamentale interesse strategico per i Serbi i quali, prendendone il controllo, avrebbero ottenuto la continuità territoriale tra la madrepatria e il territorio della autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia che a quel punto avrebbe potuto essere facilmente annessa realizzando il disegno della “Grande Serbia” immaginato dal leader serbo Slobodan Milošević.
Per questo a partire dal 1992 l’esercito serbo-bosniaco (Vojska Republike Srpske – VRS), organizzato ed armato da Belgrado, era passato all’offensiva scacciando gradualmente i musulmani dai territori della media Drina. Si calcola che già in questa fase siano stati uccise più di 3.000 persone e che almeno altri 70.000 abbiano dovuto abbandonare le loro case. 40.000 circa si erano ammassati in condizioni difficilissime a Srebrenica ridotta, insieme a Žepa poco più a sud, ad una piccola enclave isolata e strangolata dall’esercito serbo-bosniaco.
Il 6 maggio 1993 la risoluzione 824 dell’ONU aveva dichiarato Srebrenica, Žepa e Goražde (un’altra enclave musulmana assediata) zone protette inviando una forza militare di protezione (UNPROFOR) che dal gennaio 1995 era costituita da 3 battaglioni olandesi.
Il conto alla rovescia della strage inizia l’8 marzo 1995 quando Radovan Karadžić, presidente della Repubblica Serba di Bosnia, firma la direttiva n. 7 con la quale intende, tra le altre cose, mettere fine al problema delle enclave musulmane: “Pianificare accurate e ben strutturate operazioni militari che creino insostenibili condizioni di totale insicurezza, senza nessuna speranza di vita o di ulteriore sopravvivenza per gli abitanti di Srebrenica e Žepa”.

Qualche settimana dopo il generale Ratko Mladić, comandante supremo del VRS, emana la direttiva n. 7/1 contenente le disposizioni di carattere militare per dare attuazione alla direttiva politica del presidente Karadžić prevedendo la “rimozione permanente” dei musulmani bosniaci dalle aree protette, un eufemismo dietro al quale si nasconde in realtà l’eliminazione fisica di tutti Bosgnacchi teoricamente in grado di combattere e quindi di costituire un ostacolo, anche solo teorico, al disegno strategico dei Serbi.
Se ne sarebbero occupati i Servizi di Sicurezza e Informazione del VSR, vale a dire quello che rimaneva di una delle colonne portanti del regime titoista, l’organismo che ne aveva garantito la stabilità sin dalle origini, quando era tristemente noto come OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo) e aveva sterminato e fatto sparire centinaia di migliaia di persone considerate “nemici del popolo”: i Domobranci sloveni, i Cetnici serbi di Draža Mihailović, gli Ustascia croati e le loro famiglie, molti preti cattolici, i dissidenti politici e, naturalmente, gli Italiani infoibati al confine orientale, vittime di disegni politici e ordini molto simili a quelli della direttiva n. 7.
L’offensiva contro Srebrenica scatta il 6 luglio 1995 alle prime ore del mattino. L’avanzata dei Serbi è inarrestabile; il comandante del battaglione olandese (DutchBat I) dell’UNPROFOR, Tenente Colonnello Thomas Karremans, chiede la copertura aerea, ma per una incredibile serie di disguidi, errori ed intralci nella trasmissione degli ordini, favoriti dall’atteggiamento pilatesco dell’ONU e dalle sue complicatissime procedure, la richiesta non va a buon fine.
L’11 luglio l’esercito dei Serbi di Bosnia raggiunge indisturbato la città senza che gli imbelli ed impauriti soldatini olandesi dei posti di blocco riescano ad opporre la minima resistenza. Alcuni vengono presi in ostaggio dopo essere stati disarmati e derubati dell’equipaggiamento, gli altri si ritirano precipitosamente nella loro base di Potočari, all’esterno della quale si sono già concentrate diverse migliaia di persone in cerca di protezione.

Un clima pesantemente intimidatorio caratterizza gli incontri di Mladić con il frastornato comandante olandese, che – visibilmente impaurito – assiste passivamente alle minacce contro i rappresentanti della comunità musulmana (“potete scegliere se restare vivi o sparire per sempre”). Mladić gli ingiunge di consegnare i 350 Bosgnacchi rifugiatisi presso il DutchBat, in cambio verranno restituiti i soldati olandesi in ostaggio e il battaglione non sarà considerato un obiettivo ostile. Un bel brindisi immortalato dai fotografi suggella l’accordo.
Il giorno seguente, poco dopo mezzogiorno, tutti i rifugiati del DutchBat vengono consegnati ai Serbi i quali sotto il naso degli Olandesi, disorientati e incapaci di reagire, hanno intanto circondato con blindati e reparti armati il piazzale dove oramai si accalcano più di 25.000 persone e dove compare Mladić in persona per rassicurare tutti sulle sue intenzioni pacifiche.
I maschi in età militare (16/60 anni secondo le direttive della sicurezza, ma le liste dei morti sono piene di ragazzini di 13/15 anni e di ultrasessantenni), accusati di crimini di guerra contro i Serbi, vengono rastrellati, separati dalle loro famiglie e presi in consegna dalla polizia militare che li rinchiude in un fabbricato soprannominato “Casa Bianca”, distante solo 150 metri dal DutchBat, dal quale verranno portati via il 13 luglio con destinazione ignota. I loro resti verranno ritrovati nelle fosse comuni di Glogova.
Vecchi donne e bambini, invece, vengono trasportati, non senza violenze, verso il territorio controllato dalle forze musulmane pigiati in veicoli sovraccarichi portandosi dietro solo quello che hanno addosso. I pochissimi maschi adulti che sono riusciti ad arrivare sin lì intrufolandosi sugli autobus vengono individuati e freddati sul posto.
Nella notte tra il 11 e il 12 luglio una colonna di 12-15.000 uomini, guidata da qualche migliaio di soldati dell’Armata Bosniaca (ABiH), si incammina attraverso i boschi in direzione nord-ovest nel tentativo di raggiungere la salvezza a Tuzla, distante poco più di 100 km. Verrà ricordata come la “marcia della morte”: la colonna di disperati, sgranata lungo alcuni chilometri, verrà bersagliata per tutto il percorso da attacchi, imboscate, colpi di mortaio e di artiglieria; molti fuggitivi finiranno sui campi minati, molti altri verranno rastrellati nei boschi, altri ancora, stremati, si consegneranno spontaneamente ai loro carnefici.
Nelle ore successive migliaia di maschi, adulti e ragazzi, fatti prigionieri dai reparti di sicurezza, rastrellati per le strade o nei villaggi, attirati con la falsa promessa di essere portati in territorio sicuro o ingannati utilizzando i mezzi e le uniformi sottratte al DutchBat finiscono rinchiusi in improvvisati luoghi di raccolta allestiti in scuole, edifici pubblici, magazzini, fabbriche dismesse della zona o stipati in autobus sparsi per le strade di Bratunac o posteggiati nel piazzale dello stadio comunale, anch’esso riempito di prigionieri.
L’eccidio vero e proprio inizia nel tardo pomeriggio del 13 luglio nel villaggio di Kravica, luogo fortemente simbolico essendo stato teatro dei crimini contro i Serbi commessi due anni prima dalle milizie musulmane di Naser Orić.
Un migliaio di uomini della colonna in marcia verso Tuzla finiti in trappola lungo la strada e rinchiusi nei magazzini della locale cooperativa agricola vengono abbattuti con raffiche di AK 47 e bombe a mano gettate nel mucchio.
Nella tarda mattinata del 14 luglio cominciano a liberarsi i veicoli utilizzati per il trasferimento di donne, vecchi e bambini rendendo disponibili per il trasporto dei prigionieri autobus del trasporto pubblico locale, camion civili e veicoli militari. Vengono precettati operai e specialisti civili per lo scavo delle fosse comuni e si requisiscono le macchine necessarie. Il carburante non manca: è stato fornito in abbondanza dall’ONU.
I gruppi di fuoco vengono costituiti assemblando gli elementi più affidabili delle unità a disposizione: il 10° Distaccamento Sabotatori, i Lupi della Drina, i Berretti Rossi della Brigata di Bratunac, il battaglione di Polizia Militare, i reparti speciali di polizia inviati già il 10 luglio dal Ministero degli Interni, i volontari della milizia locale e quando necessario anche semplici soldati che vengono comandati con l’avvertimento che chi si rifiuta di sparare farà la stessa fine dei prigionieri.
La macchina di morte viene avviata nel primo pomeriggio: ad uno ad uno si svuotano i centri di detenzione nei quali i prigionieri sono stati ammassati in condizioni disumane e si riempiono le grandi fosse comuni.
Il procedimento è più o meno sempre lo stesso: le vittime, dopo essere state derubate e private dei documenti, vengono prelevate e trasferite in prossimità dei luoghi delle esecuzioni a bordo di bus o camion che fanno la spola avanti e indietro. Qui a gruppi di una decina per volta vengono condotti, con le mani legate e gli occhi bendati, sull’orlo di grandi fosse dove vengono allineati e falciati dalle raffiche di 7 o 8 militari serbi cadendo, crivellati di colpi, sui cadaveri di quelli che li hanno preceduti. I feriti vengono finiti prima che arrivi il gruppo successivo. Il ritmo è serrato, interrotto solo dalle poche pause necessarie per una bevuta sotto il sole cocente. Bastano 5 o 6 ore per sterminare un migliaio di persone, i sopravvissuti si conteranno sulle dita delle mani.
Dopo le esecuzioni i reparti del genio o gli operai precettati nella zona ricoprono le fosse e ripuliscono. Quando le fosse non sono pronte le fucilazioni avvengono nelle vicinanze e i corpi vi vengono poi trascinati dentro dalle ruspe insieme alla terra. A volte vengono caricati sui camion con gli scavatori e poi riversati nelle fosse.
La mattina del 16 luglio, domenica, la strage è quasi completata: degli oltre 8.000 prigionieri musulmani finiti nelle mani dei Serbi ne restano in vita non più di 1.500-1.700.
La maggior parte viene massacrata alla fattoria militare di Branjevo tra le 10 e le 16; gli ultimi 500, tra i quali due donne, vengono liquidati in poco più di un’ora direttamente all’interno della Casa della cultura di Pilica dove erano stati rinchiusi due giorni prima in mancanza di un luogo più idoneo.

Si salvano invece molti disperati della “marcia della morte”: il tenente colonnello serbo Vinko Pandurević, che ha l’ordine di eliminare la colonna in marcia verso Tuzla, è in serie difficoltà: attaccato in forze dalla 28ma divisione dell’ABiH, non può sguarnire la sua prima linea. Disobbedisce quindi agli ordini e negozia col suo omologo musulmano, il maggiore Šemsudin Muminović, un temporaneo cessate il fuoco e l’apertura di un corridoio per il libero passaggio delle migliaia di civili e militari che sono riusciti ad arrivare fin lì e che raggiungono così una insperata salvezza.
La sera stessa da Tuzla si propagano le prime notizie dei massacri, avvalorate dalle immagini dei satelliti che mostrano le fosse comuni appena ricoperte. Compariranno poi altre foto più esplicite confermando che gli eccidi erano stati osservati praticamente in diretta senza che nessuno potesse o volesse intervenire.
Pochi mesi dopo, messa finalmente da parte l’ipocrisia dell’ONU, con i bombardamenti dell’operazione Deliberate Force la NATO indurrà i Serbi (di Bosnia e non) a più miti consigli. Gli accordi di Dayton, formalizzati a Parigi il 14 dicembre 1995, metteranno fine alla guerra stabilendo la divisione della Bosnia Erzegovina in due entità distinte all’interno di uno stato federale: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio) e la Repubblica Serba (49%) i cui confini congelano la situazione di fatto. Srebrenica, Žepa e la valle della Drina, dove oramai ci sono solo Serbi, finiscono nella seconda.
Gli esecutori del massacro sono stati giudicati a L’Aia dall’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) istituito nel 1993 dall’ONU, primo tribunale penale internazionale dopo i processi di Norimberga e Tōkyō, che li ha qualificati come genocidio e crimini contro l’umanità. In 22 anni di udienze sono state condannate 23 persone coinvolte a vario titolo, da Radovan Karadžić e Ratko Mladić ai comandanti sul campo Zdravko Tolimir, Ljubiša Beara (morti in carcere scontando l’ergastolo) e Vujadin Popović (ergastolo) a tutto il resto della catena di comando.
Assolto, invece, Naser Orić, che il 7 gennaio 1993 aveva acceso la miccia con il massacro dei serbi di Kravica.
Oggi a Potoçari un grande sacrario-memoriale raccoglie i resti di quasi tutte le vittime, la cui sepoltura continua ancora oggi a mano a mano che procedono i ritrovamenti e le identificazioni. Un’impressionante distesa di migliaia di cippi bianchi tutti uguali che rappresenta perfettamente le dimensioni dell’eccidio.