Un condominio come metafora, semplice e immediata, della società: è questa l’idea che più di quarant’anni fa Ballard trasformò in un libro, High-rise, divenuto in breve un piccolo cult. Da allora innumerevoli tentativi di tradurlo in un film, tutti senza successo; è “infilmabile”, diceva qualcuno. Per nostra fortuna uno dei registi più anarchici del panorama europeo, Ben Wheatley, ha pensato che fosse invece filmabilissimo e ha diretto l’omonimo “High-rise”.
I poveri vivono sotto, i ricchi sopra: questo è più o meno il modo in cui è organizzato il moderno grattacielo nel quale si svolge il film. La implicita divisione per classi e la metafora del palazzo/alveare/società sono resi ancora più chiari poi dal fatto che all’interno del grattacielo ci siano anche supermercato, scuola, palestra, piscina: insomma, un vero e proprio microcosmo nel quale i residenti si rintanano, chiudendo il mondo fuori e trasformando, involontariamente, l’edificio in un esperimento sociale vivente.
Le tensioni tra gli inquilini salgono e degenerano improvvisamente; con loro, anche il film. Quando la tecnologia inizia a fare le bizze (luci e ascensori iniziano a dar problemi) salta anche l’ordine costituito; mentre l’Architetto che vive nell’attico, creatore dell’edificio/umanità, sembra indifferente alle vicende dei piani inferiori, sotto di lui i ricchi “aristocratici” borghesi degli ultimi piani umiliano e lottano contro gli arrembanti “popolari” dei primi piani.
Ballard e Wheatley ci raccontano, in poco meno di due ore, la degenerazione di una società dalla tecnocrazia contemporanea, all’età vittoriana, al medioevo e, infine, all’età primitiva. Gli uomini regrediscono, rubano proprietà e donne, litigano per l’ultima vernice al supermercato del palazzo, si ammazzano, in una forma di delirio a cui nessuno a un certo punto sembra più fare caso. Il condominio si riempie di rifiuti, si uccidono e si mangiano gli animali domestici (“il cibo non cresce sugli alberi”, è la surreale osservazione dell’Architetto prima di uno di questi pasti) mentre chi dovrebbe dirigere è distratto e assente. Il tutto mentre una sorta di costante festa-orgia di sesso e disperazione si muove per il grattacielo.
Il film è quasi irraccontabile. Semplicissimo invece il messaggio: dietro gli orpelli di una società superficialmente elegante e organizzata come quella capitalistica, nulla è mutato dell’istinto predatorio umano e anzi, l’organizzazione sociale del consumismo è una cristallizzazione proprio degli istinti più primitivi. Un film intelligente e particolarissimo insomma, che offre un ulteriore spunto di riflessione: in Italia non è arrivato mai.
Mentre nelle sale italiane facciamo la fila per vaccate immani tipo Suicide Squad e Independence Day 2, l’anno scorso High Rise è uscito in quasi tutto il mondo, ma non da noi. E stavolta sembra difficile anche immaginarsi un lieto fine in stile “It follows”, cult horror arrivato con un anno e mezzo di ritardo in Italia solo grazie al passaparola dei nerd su internet. Se si può provincialmente ignorare un buon regista come Ben Wheatley, già autore di vere perle come Kill List e I disertori, non si può ignorare il cast di primissimo piano e la produzione importante che questa volta, rispetto ai primi lavori più indipendenti, sono agli ordini di Wheatley. Resta quindi, di fondo, la domanda – retorica – di cosa stia succedendo alla distribuzione nostrana e di quale sia il livello di cinema che viene proposto nelle sale italiane. Se un auspicio si può fare è che, dato che l’anno prossimo uscirà già il nuovo film di Wheatley con un cast ancora più stellare e una produzione ancora più pesante di quest’ultima, l’occasione possa essere quella della sua consacrazione “commerciale” e che di conseguenza qualche distributore attento agli incassi si degni almeno di farci arrivare il DVD di questo film che, pur non essendo un capolavoro, è cinema vero, a differenza del 90% di quello che tocca sorbirsi in sala ultimamente.