Il 7 agosto, a Bel Air, l’ultimo di tanti infarti ha spento il regista William Friedkin: a fine mese avrebbe compiuto 88 anni. Aveva terminato il suo remake di “Gli ammutinati del Caine”, che a fine estate avrebbe presentato a Venezia.
Regista aggressivo, si è cimentato in più registri: se però i suoi tentativi di fare commedie si sono rivelati sempre fallimentari, il poliziesco gli è sempre stato congeniale, tanto che ne ha realizzato due pietre miliari: “Il braccio violento della legge” (Oscar per miglior film e regia) e “Vivere e morire a Los Angeles”. Non da meno “Cruising”, rimasto vittima d’un feroce boicottaggio. Il suo maggior successo è però “L’esorcista”, il film horror più celebre di sempre: la prima di soltanto due regie dell’orrore (seguirà “L’albero del male”), ciò nonostante Friedkin è stato etichettato come maestro del genere; in Italia gli è stato apposto lo stupido soprannome “regista del Male”. In patria era invece stato ribattezzato “Hurricane Billy”: un po’ per la scarsa propensione alla diplomazia e al compromesso, un po’ per il ritmo frenetico delle sue scene d’azione e per la crudezza con la quale i suoi film travolgono lo spettatore. Dalla New York squallida di “Il braccio violento della legge” a quella sordida e buia di “Cruising”, dalla L.A. capitale della violenza e dell’amoralità di “Vivere e morire a Los Angeles” alla placida Georgetown tramutata in anticamera dell’inferno in “L’esorcista”, Friedkin – che come si è detto proveniva dai quartieri più miseri di Chicago – ha raccontato il volto peggiore delle città di un’America cattiva, malsana e attraversata dalla follia, quando non da Satana stesso. La sua sincerità spietata e il suo rifiuto del pudore lo hanno fatto emarginare dalla Hollywood dem, intollerante e ignorante, accomodante e ipocrita, quella di Jane Fonda e Steven Spielberg: lanciato come una delle firme più promettenti della Nuova Hollywood (assieme a Coppola, De Palma e Scorsese), ne sarà presto escluso, squalificato dal cinema che conta con le solite accuse che chi detiene le sole opinioni legittime usa per far fuori chi è diverso da loro: fascismo, razzismo, maschilismo e/o misoginia, omofobia. Considerato rozzo e violento, era invece un artista serio e coltissimo. Friedkin stesso è stato complice della sua rovina: dopo aver girato in due anni due film importantissimi – “Il braccio violento della legge” e “L’esorcista” – ha sabotato la sua stessa carriera: prima perdendo tempo, poi sprecando risorse in un fiasco enorme (“Il salario della paura”), quindi smarrendosi tra insuccessi immeritati (il linciaggio di “Cruising”) o in film minori.
Nato a Chicago da ebrei ucraini, era cresciuto nell’indigenza; finì la scuola a quattordici anni, cominciando dei lavoretti tra i quali quello di fattorino per una televisione: l’inizio di una carriera.
Come il collega inglese John Boorman (oggetto delle ripetute contumelie di Friedkin per aver diretto “L’esorcista II – L’eretico”), dopo una gavetta televisiva (comprendente un episodio di “Alfred Hitchcock presenta”) aveva esordito al cinema con un musicarello: “Good Times” (1967), protagonisti Sonny & Cher (a Boorman fu invece appioppato “Catch Us If You Can”, film veicolo per i Dave Clark Five. Seguirono, nel 1968, un adattamento da Harold Pinter (“Festa di compleanno”), una commedia musicale con Britt Ekland (“Quella notte inventarono lo spogliarello” e, nel 1970, il primo film d’un certo successo: “Festa per il compleanno del caro amico Harold”, dramma della solitudine nella comunità gay della New York ricca.
Friedkin divenne un cineasta di prima grandezza nel 1971, col celeberrimo “Il braccio violento della legge” (in originale “The French Connection”): girato con mezzi da b-movie (Gene Hackman fu ingaggiato perché Paul Newman e Steve McQueen costavano troppo: ma per il ruolo di “Popeye” Doyle fu considerato persino un giornalista, Jimmy Breslin, che non era mai stato in un set; dopo aver visto “Bella di notte” di Luis Bunuel, Friedkin chiese alla Fox di ingaggiare Francisco Rabal, ma i produttori non capirono nulla e gli mandarono Fernando Rey: ottimo attore, ma non proprio con l’aspetto dell’uomo d’azione), guadagnò quasi quaranta volte quel che era costato e vinse cinque Oscar su otto candidature: fra cui la statuetta per il miglior film, per Hackman attore protagonista e per lo stesso Friedkin, che allora si toglieva quattro anni dichiarandosi nato nel 1939 e così, spacciandosi per trentaduenne (nell’aprile ’72, in un’edizione nemmeno tanto gloriosa), stabilì il titolo di regista più giovane a vincere un Oscar (chiarita la sua autentica età è uscito dalla Top 10, alle spalle di Kevin Costner – “Balla coi lupi”; il record tuttora è detenuto da Damien Chazelle per “La La Land”). Almeno tre le scene da cineteca: lo smontaggio e rimontaggio delle automobili che i marsigliesi usano per contrabbandare l’eroina; il nascondino di Popeye e Charnier in metropolitana; e soprattutto il folle inseguimento (Friedkin, allora fidanzato della figlia di Howard Hawks, dirà di essere stato sfidato dal quasi-suocero a girare la scena) tra l’automobile guidata (e distrutta) da Popeye e il treno della sopraelevata dirottato dal sicario Nicoli, fra le strade d’una New York inumana, grigia e sporca.
Salutata (senza cordialità) la Fox, Friedkin approdò alla Warner, scelto dallo stesso William Peter Blatty per girare il film tratto dal suo recentissimo bestseller, “L’esorcista”: ebreo di nascita ma agnostico per scelta, Friedkin fu conquistato dal romanzo e accettò la scommessa di dirigere il suo primo film dal budget importante, nonché quello che (almeno secondo chi non si è accorto che nel 1967 Roman Polanski ha girato il meraviglioso “Rosemary’s Baby”) doveva riportare il cinema dell’orrore a una dignità che non gli era più riconosciuta dai tempi del “Dottor Caligari” (Wiene 1920) e di “Vampyr” (Dreyer 1932), pur rinunciando ad ingaggiare delle star (la Warner pensava per Chris MacNeil a Audrey Hepburn, per padre Karras a Jack Nicholson e per padre Merrin a Marlon Brando): l’attore più noto del cast definitivo fu lo svedese Max von Sydow, eminenza del cinema europeo e tra i prediletti di Ingmar Bergman, ma soltanto un caratterista a Hollywood. Friedkin affidò la fotografia a Owen Roizman, già autore delle riprese del “Braccio violento”; la colonna sonora fu basata su “Tubular Bells”, disco d’esordio del geniale polistrumentista Mike Oldfield. Alternanza di momenti di grande cinema (il bellissimo prologo in Iraq), terrore autentico, effettacci e dialoghi più o meno intelligenti (Chris e il tenente Kinderman sono costernanti), “il film più terrificante di sempre” è una sfida per lo spettatore, che fra uno spavento e l’altro trascorre la visione in trepidante attesa della fin troppo famosa sequenza nella quale i due gesuiti – fra schizzi di vomito, mobili ballerini e i non sempre fantasiosi insulti del diavolo – inveiscono contro il demone Pazuzu perché esca dal corpo torturato dell’adolescente Regan. Film per molti aspetti criticabilissimo (per altri addirittura riprovevole), “L’esorcista” è comunque un film dalla fattura impeccabile: la sua più grande colpa è quella d’aver scatenato pletore d’imitatori che non fanno paura (intrappolati nella monotonia dei “jump scare” o, peggio ancora, nelle stupidissime messe in scene di risse tra rappresentanti del bene o del male: dall’imbecillissimo “Constantine” all’insulso “Doctor Sleep”). Soltanto “Shining” (diretto da Stanley Kubrick col solo intento di realizzare un film di genere fatto nel migliore dei modi), sette anni dopo, saprà terrorizzare altrettanto genuinamente.
Friedkin insomma con “L’esorcista” si affermò come cineasta abilissimo, maestro della messinscena, si trattasse di girare un poliziesco o di riportare in auge il cinema di paura: questa fu la sua rovina – lo racconta, con onestà e lucidità, nella sua bellissima autobiografia “The Friedkin Connection – A Memoir” (pubblicata nel 2013 da Bompiani come “Il buio e la luce. La mia vita e i miei film”). Invitato da Truffaut a Parigi, si lasciò frastornare dalle lodi sperticate e dal fatto che nelle grandi città di mezzo mondo la gente trascorreva ore in fila fuori dai cinema per vedere “L’esorcista” (e che non pochi uscivano dalla sala in barella): 430 milioni di dollari incassati da un film che ne era costati dodici. Trascorse mesi senza far nulla, svegliandosi giusto per filmare una sua intervista a Fritz Lang (una magia); poi, lui e Jeanne Moreau si sposarono quasi per gioco (divorzieranno dopo due anni nei quali a malapena avevano trascorso qualche giorno assieme); quindi si decise a girare “Il salario della paura” (1977, rifacimento d’uno dei suoi film preferiti, “Vite vendute” di Henri Georges-Clouzot). Ottenne finalmente Rabal, ma fece invano la corte a Marcello Mastroianni per un ruolo poi assegnato al francese Bruno Cremer (più avanti noto Maigret televisivo), e a Steve McQueen per la parte da protagonista già di Yves Montand (lo dovette sostituire con Roy Scheider, ritrovato dopo essere stato la spalla di Hackman in “French Connection”, e reduce dal successo planetario del cretinissimo “Squalo” di Spielberg). Girato in Repubblica Dominicana in condizioni più pericolose dell’inseguimento stradale di “French Connection”, “Il salario della paura” (in originale “The Sorcerer”, il nome dato al furgone carico d’esplosivo guidato da Scheider) fu – nonostante la qualità, riconosciuta al film soltanto dopo decenni – un severo fiasco. Nel 1979 si ridusse a girare un film scartato da John Frankenheimer (che quattro anni prima aveva diretto il pregevole “French Connection II” a Marsiglia), la stracca commedia “Pollice da scasso” (per alcuni la miglior interpretazione di Peter Falk); tornato a progetti più ambiziosi, nel 1980 girò l’ottimo ma sciagurato “Cruising”. Funestato dalla disistima reciproca tra Friedkin e il protagonista, Al Pacino, il film – ispirato tra le altre cose dai crimini commessi dal figurante che, in “L’esorcista”, impersona l’infermiere che pratica una risonanza magnetica a Regan – racconta la catabasi d’un poliziotto che, infiltrandosi nei più sordidi locali d’una New York afosa e più buia di quella di “French Connection”, cerca (“Pacino is cruising for a killer”: dove “cruising” sta sia per “braccare” che per “battere” – il marciapiede) un maniaco che uccide ragazzi bassi e dai capelli neri – come Pacino – adescandoli negli ambienti gay della Grande Mela non ancora bonificata da Giuliani. Gli omosessuali americani scatenarono una campagna d’odio nei confronti di Friedkin, autore a loro dire d’un film omofobico, già durante le riprese del film stesso (come ne avessero stabilito la portata omofobica è un mistero), facendo schiamazzi intorno al set (i dialoghi furono registrati in studio), aggredendo il personale e facendo cattiva stampa al film, che infatti fu evitato dal pubblico. Gli anni Ottanta cominciarono così malissimo per il regista, che cominciò ad avere seri problemi di salute: cominciò a essere perseguitato da problemi cardiaci, si sposò altre due volte per divorziare dopo tre anni entrambe le volte (trovò la felicità coniugale soltanto nel 1991, con l’ex attrice e produttrice Sherry Lansing), girò un altro insuccesso (la commedia grottesca “L’affare del secolo”, con Sigourney Weaver). Cominciò a risalire la china nel 1984, dirigendo la sventurata cantante Laura Branigan nel bel videoclip di “Self Control”, cover inglese dell’omonima hit del barlettano Raffaele Riefoli in arte Raf (Friedkin ha poi girato videoclip per Barbra Streisand e Johnny Hallyday). Considerato ormai finito, nel 1985 girò forse il suo miglior film, “Vivere e morire a Los Angeles”: un’autentica discesa agli inferi (“L’esorcista” al confronto è una commedia). Come “French Connection”, un altro film con protagonisti poliziotti non meno violenti, e forse più malsani, dei criminali che braccano (Friedkin fu alvanizzato dalle memorie di Gerald Petievich, un ex federale che fa una comparsata nel film): e un altro inseguimento automobilistico rimasto nella storia – contromano, nella tangenziale della metropoli californiana, all’ora di punta. Violento, ritmatissimo (grazie anche alla colonna sonora dei Wang Chung), coloratissimo (fotografia di Robby Muller), con un supercattivo interpretato dall’ancora ignoto Willem Dafoe. Chance (William Petersen), agente federale coraggioso ma sordido (ricatta un’informatrice obbligandola a una relazione sessuale), per vendicare il suo collega anziano ucciso da Masters (Dafoe), un falsario che sarebbe un artista di successo se non bruciasse i suoi dipinti appena finiti, assieme al pavido nuovo collega Vukovich sottrae a un trafficante di diamanti una valigetta di denaro per incastrare Masters. “Vivere e morire a Los Angeles”, uno dei polizieschi migliori di sempre, andò ben oltre le frasi fatte sulla confusione tra bene e male; ma non bastò a riportare Friedkin agli antichi fasti. Dopo un film televisivo (“Rampage – Assassino senza colpa”, ’87), accusato di legittimare la pena di morte, Friedkin tornò al cinema dell’orrore (a parte un episodio di “Ai confini della realtà” e uno di “I racconti della cripta”, ha girato due soli horror): “The Guardian”, ossia “L’albero del male” (1990), annunciato come “il nuovo film del regista dell’Esorcista” (qualcuno ha dato la definizione, piuttosto raccapricciante, “film appartenente al filone demoniaco post-esorcista”: scemenze che non si dicono nemmeno al DAMS); il che fu una sciagura, perché il pubblico si aspettava davvero un altro sequel del film del 1973 (negli stessi mesi usciva “L’esorcista III” diretto dallo stesso Blatty) e rimase deluso da questo horror minore ma comunque efficace e robusto, la storia d’una governante pagana (la brava Jenny Seagrove) nella Los Angeles contemporanea, devota a un albero al quale offre in pasto corpi umani (non mancarono le accuse di anti-ecologismo). Uno stanchissimo e sfiduciato Friedkin negli anni ’90 diresse soltanto due film per il grande schermo, entrambi ignorati dal pubblico: “Blue Chips – Basta vincere”, con Nick Nolte allenatore di basket (grande passione del regista), e “Jade”, thriller erotico scritto da Joe Eszterhas (noto sceneggiatore del mediocre “Basic Instinct”), nel quale almeno Friedkin si è divertito a mettere in scena un inseguimento lentissimo ma non meno riuscito dei più noti precedenti. Il 2000 vide l’ultimo film di Friedkin dagli incassi apprezzabili: “Regole d’onore”, con Tommy Lee Jones che difende davanti alla corte marziale Samuel L. Jackson per aver aperto il fuoco sulla folla in Yemen (il film fu bandito nei paesi arabi, con l’accusa di razzismo) durante l’evacuazione dell’ambasciata statunitense. Nel 2003 ancora Tommy Lee Jones fu protagonista di “The Hunted – La preda”, quasi-remake di “Rambo” con Benicio Del Toro al posto di Stallone; nel 2006 il primo dei due film tratti dall’autore teatrale Tracy Letts, “Bug”, protagonisti Ashley Judd e Michael Shannon: l’infelice Agnes, che con una relazione lesbica e la droga cerca di sfuggire al vuoto lasciatole dalla morte del figlio, si rinchiude in una stanza di motel con un ex marine che, traumatizzato dalla Guerra del Golfo, crede di essere perseguitato dagli insetti. Dato lo scarso riscontro di pubblico di “Bug” (8 milioni di incasso: comunque il doppio del budget), l’ormai quasi italiano (teneva spesso incontri a Milano e Torino) Friedkin, contrariato dall’andazzo della Hollywood contemporanea (appassionato di videogiochi, disse d’aver comprato la Playstation perché era più divertente di guardare i nuovi film realizzati col computer) annunciò di essere diventato regista d’opera: diresse il “Wozzeck” di Berg, “Arianna a Nasso” di Strauss, il Regio di Torino propose per anni la sua regia della “Aida” di Verdi; ma la sua predilezione andava a Puccini (del quale diresse “Gianni Schicchi”, “Suor Angelica” e “Il tabarro”), arrivando a fargli dire che “chi non ama Puccini è malato”. Nel 2011 fu la volta dell’ultimo grande film di Friedkin, “Killer Joe”, noir grottesco nel quale Joseph alias Killer Joe (un Matthew McConaughey sugli scudi), un terrificante poliziotto squilibrato che non disdegna d’arrotondare come sicario, ingaggiato incautamente dallo stupidissimo spacciatore Chris s’innamora perdutamente della di lui sorella, la ritardata Dottie (unica anima pura di tutto il film), e soggioga la loro squallida famiglia. Impietoso ritratto di gruppo della “white trash”, in un Texas affollato da “mobile homes” e affamato, “Killer Joe” è stato l’ultimo grande colpo d’un maestro del cinema: aggressivo, crudo, cupo, spietato come i suoi momenti di maggior energia. Dopo aver ribadito l’addio al cinema, nel 2017 è tornato alla macchina da presa per “The Devil and Father Amorth”, documentario sul noto sacerdote italiano, filmato anche mentre pratica un autentico rito d’esorcismo. Infine, nonostante i passati proclami, un ultimo film, di prossima uscita: “The Caine Mutiny – Court Martial”.
Ho incontrato due volte William Friedkin, alla Milanesiana della quale era ospite fisso, nel 2007 e nel 2008. Elisabetta Sgarbi, operatrice cultura dalle visioni molto più ampie di chi si dice da solo “sono open-minded”, lo invitò infischiandosene della nomea (falsissima) di rozzo cultore della violenza. Fuori dalla sala, alcune signore milanesi che erano lì giusto per perdere tempo mugugnavano, “sai che roba incontrare il regista dell’Esorcista”… Billy Friedkin era molto di più. Era un signore gentilissimo (ero un ragazzino, mi avvicinai col cuore in gola per chiedere che mi firmasse un libro, fu carinissimo) e molto simpatico (vedendo pochi uomini in sala chiese se ci fosse una partita di calcio in tv), parlò della sua passione per il grande cinema italiano ma non per circostanza e ruffianeria, ne era davvero esperto: il suo film preferito (assieme a “Orizzonti di gloria” di Kubrick) era “I soliti ignoti”, ma aveva anche visto molti altri film di Monicelli e molti altri con Totò, o con Gassman. Era un grande cineasta e un grande artista. Mancheranno lui, la sua aggressività e la sua sincerità.