Questo fine settimana si riunirà a Roma l’assise nazionale di Officina per l’Italia. Un appuntamento importante per la costruzione di un soggetto politico nuovo, dinamico. Credibile. Nel corso dei lavori preparatori un’attenzione particolare è stata dedicata ai problemi socio economici e alle politiche industriali. Vi proponiamo il documento introduttivo — preparato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Corsaro e Guido Crosetto — che verrà presentato al convegno romano. Il dibattito è aperto.
«Qualunque popolo ha il diritto alla speranza e ad ambire a condizioni di vita migliori per i propri figli. Ne consegue che il tema della crescita, intesa come continuo e progressivo sviluppo di benessere ed opportunità, deve rimanere al centro di ogni proposta di governo, in netto contrasto con i cantori della “decrescita felice“, secondo i quali ci si dovrebbe rassegnare alla contrazione della ricchezza e, con essa, del nostro tenore di vita medio.
Noi pensiamo che occorra il coraggio di parlare di crescita, di benessere diffuso, di un futuro al quale si chieda la sopravvivenza ma la vita. Il punto di arrivo delle politiche fiscali, tributarie, industriali, burocratiche, legislative che stiamo inconsapevolmente perseguendo è quello di una piramide della ricchezza con una base larghissima, ai limiti o sotto i limiti della sussistenza, ed un vertice sempre più piccolo; mentre il modello italiano si è tradizionalmente sviluppato secondo una piramide “panciuta”, in cui la classe media assumeva dimensioni sempre maggiori.
Conclusa la lunga fase dello sviluppo industriale, costruita anche grazie ad azioni ed interventi pubblici oggi non più ripetibili (quali il ricorso smodato all’indebitamento, la svalutazione e/o la stampa della moneta, le manovre inflattive) , l’economia italiana si trova oggi a fronteggiare la sfida del mercato globale condizionata da nuovi vincoli e regole che mal si adattano ad una struttura caratterizzata da forte parcellizzazione di imprese di medio-piccole dimensioni.
La crescita dipende essenzialmente dalle imprese e quindi è necessario impostare una politica coraggiosa che le faccia crescere e le induca a creare occupazione. E’ illusorio pensare che le nostre imprese possano subire indefinitamente il peso di oneri che le loro concorrenti internazionali non hanno. Nel tempo infatti si è creata quella che qualcuno chiama concorrenza asimmetrica ma che sarebbe più giusto chiamare concorrenza sleale. Questa sta distruggendo il sistema produttivo occidentale e, soprattutto, il sistema produttivo italiano che è composto quasi esclusivamente da piccole/piccolissime imprese e da artigiani. Le grandi imprese hanno chiuso gli stabilimenti italiani e hanno delocalizzato la produzione. D’altro canto, se non lo avessero fatto avrebbero perso la sfida globale a vantaggio delle imprese situate altrove. Le piccole imprese e gli artigiani, non potendo sostenere i livelli dei prezzi (al di sotto dei costi di produzione) offerti dalle concorrenti estere, sono stati costretti a chiudere.
Globalizzazione significa anche questo: che gli imprenditori e le imprese si spostano dove trovano condizioni migliori per i loro progetti e quindi non possiamo più attendere per dare vita ad un grande piano di organizzazione, appunto mirato all’attrazione di investimenti esteri, che possa dare immediate certezze in materia di giustizia, fisco, semplificazione, formazione e soprattutto di lavoro.
Il “campo di gioco” nel quale oggi le nostre imprese dovrebbero operare è davvero irto di ostacoli: dal tema della bolletta energetica e della nostra totale dipendenza dall’estero, con un aggravio di costi di produttivi solo per l’accensione degli impianti. Alla carenza infrastrutturale, soprattutto in ordine alle piattaforme logistiche ed alla mobilità che non dovrebbero mancare in una Nazione che, per connotazione morfologica, è la porta di accesso verso l’Europa di una parte del mondo. Alla inaffidabilità ed indeterminatezza di tempi e regole della giustizia civile, tali da rappresentare – esse sole – un deterrente ad investire in Italia.
Non vi è dubbio che le manovre intraprese dagli ultimi tre Governi italiani siano state solo rivolte a seguire un programma economico deciso a Bruxelles, immaginato per favorire altri mercati ed altre strutture economiche, e sottoscritto senza riserve e senza razionalità. A cominciare dall’accettazione del limite di deficit al 3% pur in costanza di una fase di crisi economica, mentre altri paesi alimentano la loro ripresa anche in deficit senza che in Europa alcuno chieda loro conto e ragione (Francia e Spagna); proseguendo poi con l’inaccettabile sottomissione di un Governo che trasmette il progetto di Legge di Stabilità all’UE per averne validazione prima ancora di sottoporlo al proprio Parlamento. Il tutto senza almeno pretendere in cambio che l’Europa della finanza e della burocrazia intervenga a supporto dell’Italia nel governo, ad esempio, del fenomeno dell’immigrazione.
L’accettazione acritica con cui l’Italia si è asservita al potere dell’Unione ci rende non euro-scettici, giacché fummo e siamo sostenitori della realizzazione di una unione politica che restituisca al nostro continente la forza e la credibilità di un tempo, ma certamente euro-critici rispetto la centralità di organismi decisionali privi di qualunque relazione con l’investitura, il mandato e la periodica verifica del consenso popolare.
Il nostro obiettivo è allora quello di contrapporsi con forza alle scelte ed alla deriva in atto, cercando di mutare le condizioni di partenza e di percorso che ne determinano – ad oggi – l’ineluttabilità. Si tratta, anzitutto, di modificare l’approccio culturale con il quale la Pubblica Amministrazione si confronta con i produttori di ricchezza.
Pensare che famiglie ed imprese siano sempre e solo fonti da tassare conduce, in particolare in periodi di recessione come quello in cui viviamo, ad azzerare la capacità di spesa e di investimento di chi dovrebbe produrre ricchezza.
E’ allora necessario smettere di vessare gli asfittici micro-contribuenti e risvegliare il più grande contribuente d’Italia: la crescita economica. Quando la ricchezza di una Nazione si contrae, diminuisce la base imponibile sulla quale lo Stato può contare per le proprie entrate. Grazie alla crescita economica, al contrario, aumenta il gettito dello Stato, anche mantenendo inalterato il livello di tassazione o addirittura riducendolo.
Non è possibile credere che la politica del rigore, fatta di maggiori tasse, sia la ricetta per abbattere il debito. La proposta migliore resta: ridurre la spesa improduttiva e favorire la crescita. Per dovere di semplificazione, proviamo ad individuare gli ambiti sui quali si deve concentrare un’azione sulla crescita nei seguenti principali settori:
1) Spesa e Debito pubblico
2) Vincoli di bilancio e monetari europei
3) Emergenza Lavoro
4) Organizzazione dello Stato
5) Il “gap territoriale”, il recupero del Sud
- Spesa e Debito Pubblico
La Spesa
Per almeno 4 decenni, la politica dei Governi ha favorito una progressiva crescita della spesa pubblica, finanziata volta a volta con gli strumenti sopra richiamati e senza porre alcun freno alla crescita del debito. In sostanza, lo Stato ha lungamente costruito la propria offerta – in termini di servizi e welfare – rinunciando a chiedere una partecipazione immediata agli italiani e rinviando il problema delle coperture alle generazioni successive. Così, da un lato le forze governative mantenevano e consolidavano il proprio consenso, dall’altro le famiglie potevano cumulare una ricchezza privata che ancor oggi rende la popolazione italiana ai più alti indici internazionali nonostante le finanze pubbliche versino in condizioni disastrose.
La globalizzazione dei mercati, la nascita di un’Unione Europea le cui regole sono rigidamente applicate a tutti gli Stati membri senza tener conto di differenze morfologiche nella struttura economica, la determinazione di limiti e vincoli invalicabili pongono oggi nella condizione di non poter più ricorrere a manovre espansive e a dover contenere i costi della Pubblica Amministrazione.
I Governi anche più recenti, hanno invece proseguito nel lasciar crescere la spesa pubblica, individuando nella continua crescita della pressione fiscale il metodo per finanziare ciò che prima era coperto con interventi monetari e di indebitamento.
In questo, fra l’altro, va letto il maggior fallimento della politica delle “larghe intese“: mettere assieme visioni della società che dovrebbero essere alternative, doveva almeno consentire un serio intervento nel ridimensionamento dei costi dello Stato, dato che il comune coinvolgimento impediva ad alcuna delle parti di speculare politicamente sull’impopolarità delle decisioni di contenimento. Invece ciascuno continua a proteggere i propri ambiti elettorali, sommando i propri costi a quelli dell’altro, con l’effetto di un’ulteriore crescita di una spesa ormai incontrollata, coperta dall’aumento delle tasse pure in un periodo recessivo in cui il PIL diminuisce oltre le peggiori previsioni del governo.
Le grandi aree in cui si scompone la spesa pubblica sono principalmente: le pensioni e gli interventi sociali; gli stipendi pubblici; la sanità ed il Welfare; gli interessi passivi sul debito; le dispersioni e le inefficienze della Pubblica Amministrazione.
Il Capitolo pensioni è ovviamente il più “rigido”, tuttavia riteniamo che si possa intervenire su ogni pensione superiore a 5.000 € mensili, che non sia conseguente ad un versamento contributivo, adeguandone il dimensionamento a quanto effettivamente versato dal percettore. E’ anche un modo per restituire equità sociale alle generazioni che oggi sono chiamate a pagare le scelte “leggere” del passato.
La Funzione Pubblica, troppo a lungo alimentata per ragioni di consenso elettorale ed impropriamente utilizzata quale ammortizzatore sociale va ricondotta, mantenendo il blocco al turn-over, a dimensioni di efficienza, introducendo misuratori di qualità del servizio e strumenti di incentivo e premialità.
La voragine della spesa sanitaria deve essere governata con la non più rinviabile adozione dei costi standard e di una inflessibile penalizzazione di tutte le Istituzioni che si rendano responsabili di spese ingiustificate. Occorre il coraggio di individuare i necessari “costi di produzione” di ogni prestazione pubblica, da quella sanitaria a quella di ogni ente locale, accentrando se del caso le attività che non trovino giustificazioni di razionalità e risparmio nella polverizzazione e nel decentramento, a partire dalle centrali di acquisto. Soprattutto, va fissato il limite massimo di spesa pubblica consentita in rapporto al PIL che sia invalicabile per ogni Governo, rendendo impossibili manovre che dilatino le uscite ed obbligando viceversa il ricorso ad azioni a riduzione del debito.
Il nemico da abbattere è il circolo vizioso creato tra la spesa pubblica inarrestabile e l’aumento conseguente della pressione fiscale. In questo senso si inserisce la nostra proposta di inserire in Costituzione un tetto massimo alla pressione fiscale applicabile al contribuente. Il governo, ad ogni livello, deve sapere di non poter chiedere più tasse di quanto consentito, e deve rideterminare la spesa pubblica sulla base di quanto disponibile. Una rivoluzione copernicana nel rapporto tra fiscalità e spesa pubblica, tra cittadini e Stato. Per contro, va dato corso alla ripresa degli investimenti e delle infrastrutture. La riduzione della spesa deve essere concentrata nella spesa improduttiva, ma non deve precludere la possibilità di realizzare le opere necessarie per migliorare il contesto in cui agiscono le imprese e vivono i cittadini.
Il debito
Oggi la sua alimentazione massima, così come il suo punto di arrivo a lungo termine (60%) sono definiti dalla Ue; il suo costo elevato è influenzato anche dalla mancanza di un prestatore di ultima istanza pubblico, cosa che accade regolarmente in altre realtà – certamente non secondarie – quali Stati Uniti e Giappone (motivo in più per esigere una rinegoziazione del ruolo, dei compiti e della catena di comando della BCE); la sua dimensione è parametrata su una possibilità/capacità di costruzione o mantenimento di ricchezza, il Pil, che è a sua volta influenzato in modo significativo dal contorno complessivo di regole fiscali, tributarie, del lavoro, burocratiche, diverse in ogni Stato europeo.
L’impegno a rientrare nel limite del 60% (a fronte di oltre il 130%) nei prossimi 20 anni pone l’obbligo di attuare operazioni straordinarie vincolate al riacquisto dei titoli emessi, vietando ogni utilizzo alternativo per finanziare spesa corrente.
In questo senso, le principale aree di intervento possono essere l’adozione di misure di finanza straordinaria e l’alienazione di patrimonio pubblico (beni immobiliari e demaniali, partecipazioni non strategiche …). Delle dismissioni immobiliari, in particolare, si parla da anni, ma al di là di generiche affermazioni nessuno si è mai dedicato con metodo all’argomento. Affrontare seriamente il tema significherebbe destinare tutte le entrate derivate all’abbattimento del debito, dopo aver venduto (e non svenduto!) al massimo prezzo realizzabile. Per fare tutto ciò sono indispensabili una previa verifica del patrimonio, un suo accatastamento reale e, ultimo ma non meno importante, una valorizzazione urbanistica immediata e senza vincoli. Purtroppo, sinora il susseguirsi di commissari, esperti, professori e ministri tecnici sono risultati del tutto inefficaci.
Altri elementi utili e necessari per recuperare fondi straordinari da destinare all’abbattimento del debito sono la lotta all’evasione fiscale ed il recupero dei fondi esportati a scopi elusivi nel corso degli anni.
Quanto alla prima, appare non più differibile una riscrittura della normativa tributaria che, muovendo da una rigorosa semplificazione di leggi ed adempimenti, realizzi il “contrasto d’interessi” tra chi fornisce un bene o servizio e chi l’acquista con il sistema della detraibilità del titolo fiscale, come già avviene nelle ristrutturazioni edilizie e secondo le consuetudini di diverse democrazie occidentali.
Quanto al recupero dei fondi esteri, rilevata la riuscita solo parziale dello “scudo fiscale” del 2011, che ha comunque consentito l’emersione di oltre 100 miliardi di €, tutti i sistemi di rilevazione confermano come la misura dei capitali all’estero sia ancora particolarmente ingente, e che anzi gli ultimi 24 mesi hanno registrato una recrudescenza del fenomeno. Occorre quindi accelerare la stipula di un accordo con la Svizzera, come fatto da Germania, Austria e Regno Unito, per tassare i capitali nascosti dagli evasori italiani nei forzieri delle banche elvetiche, ed individuare norme più efficaci per contrastare il ricorso ai cosiddetti “paradisi fiscali”.
- Vincoli di bilancio e monetari europei
Nel capitolo sull’Europeo sono stati trattati i temi del rapporto con l’UE, il peso che i vincoli di bilancio (fiscal compact, limitazione nel ricorso al deficit, partecipazione al fondo salva-Stati…) e l’effetto che questi comportano sulle finanze pubbliche e, per ricaduta, sull’economia nazionale.
In questa sede, focalizzando maggiormente le differenze a nostro sfavore nel confronto con il principale competitor europeo (la Germania), ci preme in questa sede evidenziare almeno 3 principali strumenti che garantiscono un valido supporto all’economia tedesca e verso i quali dovremmo indirizzare la nostra positiva emulazione:
1) La “KFW” (Kredit fùr Wirtschaft – Credito per l’economia) è uno strumento pubblico che, per l’economia tedesca, ha una funzione fondamentale di sostegno-spinta: dal credito alle garanzie per l’export c’è l’intervento decisivo dello Stato. La nostra Cassa Depositi e Prestiti, riformata nel 2004-2004, ha avuto proprio quel riferimento, ma oggi si deve andare oltre. Va potenziata, e ne va chiesto un regime europeo analogo a quello accordato alla Germania. Non solo per il capitale e le garanzie, ma anche per la legittimazione ad erogare “aiuti di Stato” per la contabilizzazione Eurostat.
2) I “Max Planck Institut” son, in Germania, il fondamentale anello di congiunzione operativa tra “ricerca” ed “industria”. Il nostro “Istituto Italiano di Tecnologia”, l’IIT di Genova, creato pure nel 2003-2004, è stato costruito su quel modello: oggi, dopo il successo del primo esperimento, ne servono diversi. Costano poco e rendono molto.
3) Le “scuole professionali” tedesche prevedono, per i ragazzi, una interazione continua e sistematica tra le aule ed i luoghi di lavoro. Da noi non è sufficiente nemmeno l’istruzione tecnica, il cui livello di interazione con il mondo del lavoro e dell’impresa è quasi inesistente.
3. Emergenza lavoro
L’acuirsi della crisi ha prodotto effetti devastanti sul versante occupazione: la disoccupazione ha raggiunto livelli allarmanti, che sfiorano il dramma se si considera la percentuale di giovani che non riescono neppure a trovare la prima occupazione al termine del ciclo di studi.
L’Italia ha colpevolmente tardato ad adeguare le regole del mercato del lavoro alle esigenze dell’economia mondiale globalizzata, ed ha fornito solo la parziale risposta di adattare i cosiddetti contratti atipici, nati per esigenze di altro tipo, alle esigenze di flessibilità del sistema del sistema economico. Gli “atipici” sono così diventati lavoratori di serie B, sprovvisti delle garanzie dei lavoratori “classici”, ma indispensabili alla tenuta della nostra economia. Con questo trucco il sistema ha continuato a funzionare, almeno in apparenza, finché la crisi economica non ne ha messo a nudo tutti i limiti.
E’ quindi necessario eliminare le differenze di trattamento che esistono tra lavoratori, per far in modo che le esigenze di flessibilità richieste dall’economia, siano equamente suddivise tra tutti.
Per coniugare le esigenze delle imprese e dei lavoratori, non è più rinviabile un’azione concreta di riduzione del cuneo fiscale, con particolare urgenza per i primi anni di assunzione. Anche in questo ambito, giudichiamo indecorosa la scelta del Governo Letta di fingere un intervento in materia che consentirà ad una platea circoscritta, il misero beneficio di 14€ mensili!
Rafforzare l’apprendistato come transizione tra formazione e lavoro e come strumento di accesso al mondo del lavoro; realizzare un sistema unico di ammortizzatori sociali.
- Organizzazione dello Stato
Con “organizzazione dello Stato“, intendiamo in questa fase riferirci al complesso sistema di vincoli posti dall’inefficienza della burocrazia, l’inadeguatezza e la lungaggine degli interventi della giustizia, l’inaccettabile peso della tassazione, la sproporzione contrattuale tra il mondo finanziario-bancario da un lato ed il sistema di famiglie ed imprese dall’altro; il ritardo (soprattutto in certe aree) della rete infrastrutturale; l’onerosità e la farraginosità del mercato del lavoro.
Ognuno di questi ambiti può a sua volta essere suddiviso in sottoaree che riguardino le riforme della Costituzione e delle forme di governo; l’abolizione o riduzione del numero di provincie e regioni; il pubblico impiego; le procedure contraddittorie costruite in anni di legislazione; il ruolo, la responsabilità ed il potere della burocrazia ed il suo rapporto con il governo politico titolare del mandato popolare.
In una parola, sia detto senza infingimenti, tutto ciò che continua a non funzionare nonostante 20 anni fa il centrodestra italiano seppe conquistare vasto consenso proprio attorno al suo progetto di liberazione del cittadino e delle imprese dai vincoli della burocrazia, dal peso del fisco, dai condizionamenti dei sindacati e dei poteri più o meno occulti, da una antica ed odiosa visione secondo la quale il cittadino suddito deve sempre chiedere ed attendere il permesso per fare qualsiasi cosa, anziché essere lo Stato a riservarsi ex-post il diritto/dovere di controllare se quanto fatto dalla libera iniziativa corrisponda o meno a poche e chiare leggi in materia.
Si tratta di una rivoluzione incompiuta, va riconosciuto, perché troppo presto si è ceduto a vincoli e condizionamenti esterni originati dal timore di alcuni (sindacati in primis) di perdere parte del proprio potere interdittorio ed autoreferenziale, e dalla capacità dei cosiddetti “poteri forti” di riappropriarsi della capacità ricattatoria e condizionante (finanza, informazione, alta burocrazia dello Stato…).
Un nuovo centrodestra deve quindi muovere dalla volontà e dalla consapevolezza di essere davvero non condizionabile da alcun interesse o bisogno, che non sia quello di rendere gli italiani più liberi di agire, misurare le proprie capacità e mettere a miglior frutto i propri meriti.
Le proposte concrete innovative o di rottura, possono essere molte, tra le quali vogliamo anticiparne alcune a solo titolo esemplificativo:
Pressione fiscale. Va ricondotta, per gradi, verso la reale capacità contributiva dei soggetti con paletti insormontabili: l’Irap non può essere versata da aziende in perdita, e comunque ne va da subito avviata una drastica riduzione finanziandola con il blocco dei contributi alle imprese; deve essere ricalcolato un reddito di sopravvivenza disponibile sottratto da qualunque tipo di imposizione fiscale e tributaria diretta, ivi comprendendo cartelle esattoriali varie. In linea generale, dovrebbe essere seguito l’indirizzo di volgere verso un progressivo alleggerimento della tassazione sulla produzione del reddito, indirizzandola in misura sostitutiva e non aggiuntiva verso la manifestazione del consumo (fatti salvi i beni essenziali).
Riduzione del “peso dello Stato”. Lo Stato torni a svolgere il ruolo che gli è proprio, arretrando rispetto a un protagonismo eccessivo sul mercato di beni e servizi. Oggi si contano 4942 organismi partecipati dagli enti locali, ai quali vanno aggiunti quelli partecipati da Regioni e Stato centrale. Si tratta di enti, aziende e società che agiscono nei settori più disparati (meno del 60% di questi si occupa di “servizi pubblici locali”) e che registrano ogni anno diversi miliardi di perdite. La macchina pubblica deve continuare a svolgere poche cose, quelle che le riescono bene, e a un giusto costo per la collettività, senza abbandonare le sue funzioni vitali: sanità, giustizia, istruzione, sicurezza, difesa, servizi essenziali e strategici. Tutto il resto deve essere lasciato alla libera concorrenza.
Semplificazione e autocertificazione. Eliminare la discrezionalità delle amministrazioni; abolire le autorizzazioni preventive sostituendole con autocertificazioni soggette a controllo postumo da parte della Pubblica Amministrazione; reale applicazione della regola del silenzio-assenso; responsabilizzazione dei funzionari pubblici che cagionino indebito danno al cittadino/contribuente.
Definizione delle competenze. Rivedere profondamente il TITOLO V della Costituzione definendo, una volta per tutte, le competenze precise dei vari organi dello Stato, senza dannose sovrapposizioni. Si creerebbe così una nuova opportunità di sviluppo e di investimento e si toglierebbe linfa alla corruzione. Eliminare il più possibile la discrezionalità nell’espressione di pareri di competenza dei vari livelli amministrativi.
Pubblico impiego. Deve recuperare il principio della meritocrazia consentendo di premiare il merito e di punire demerito e furbizia. Vanno fissati benchmark chiari e misurabili nella valutazione dell’efficienza di ogni persona del pubblico impiego e occorre poter premiare economicamente risultati raggiunti e poter licenziare chi provoca disdoro o danni dolosi alla Pubblica Amministrazione. Rendere possibile integrazione reddito tra lavoro pubblico ed attività privata.
Passare dalle burocrazia di procedure alla burocrazia trasparente di risultato. Lo Stato deve fissare gli obiettivi da garantire, i tempi massimi, determinati sulla media degli altri paesi concorrenti, lasciando ad ogni ufficio ed ogni ente la definizione autonoma del percorso per raggiungerli ed al privato la possibilità di autocertificarli.
Ripristinare le garanzie dello statuto del contribuente e sopprimere ogni sorta di accertamento induttivo sprovvisto di base documentale e l’onore della prova a carico del contribuente.
Eliminare la misura massima dei pagamenti in contanti chiedendo autorizzazione europea per l’introduzione di una nuova aliquota IVA determinata non in base ai beni ma in base al sistema di pagamento, da introdurre per pagamenti in contanti superiori a 1000 euro, nella misura del 30%, con contestuale riduzione al 20% delle altre aliquote.
Consentire la nascita di società private che esercitino l’attività di recupero dell’evasione, con pagamenti in percentuale del recuperato.
Rendere in ogni caso impignorabile la prima casa.
Separazione delle banche di affari dalle banche tradizionali. Obbligo di rendicontazione, da parte degli Istituti di Credito che beneficino di contributi o agevolazioni di natura pubblica, dell’uso delle risorse in coerenza con le finalità del prestito/erogazione, con recupero della naturale vocazione ad accompagnare scelte ed investimenti di famiglie ed imprese.
Abbassamento della soglia di usura con agganciamento ai tassi di interesse sui titoli pubblici a dieci anni.
Condono su cartelle Equitalia, almeno nella stessa misura concessa ad alcune banche o ai gestori dei video giochi.
Introduzione di una disciplina speciale sul lavoro su ogni nuova azienda costituita che abbia un capitale o investimenti iniziali superiori a 300 mila euro per i primi due anni di vita, ridurre le tipologie contrattuali e gli adempimenti a carico delle imprese semplificando le fasi di ricerca ed assunzione di lavoratori.
Revisione degli studi di settore. In particolare in questa fase di crisi, è assurda la pretesa del fisco di predeterminare una capacità reddituale del contribuenti che nella gran parte dei casi non ha riscontro nella realtà.
Defiscalizzazione a favore dell’imprenditore persona fisica, dei versamenti effettuati a titolo di ricapitalizzazione dell’azienda partecipata, al fine di agevolare la maggiore patrimonializzazione delle imprese.
Piano strategico per investimenti turistici su grande scala che preveda l’individuazione di 10 aree nazionali, possibilmente con rilevante presenza di demanio pubblico o di strutture industriali dismesse, con creazione di zone franche a fiscalità differenziata, a burocrazia zero con approvazione di macroprogetti di intervanto in conferenza unificata e tempi certi.
Ricostituire il Ministero del Bilancio, con esclusivi compiti di spending review, incorporando Ragioneria Generale dello Stato e Corte dei Conti e superando la stortura di un Ministero dell’Economia che da solo gestisce le entrate e la spesa.
Investimenti sul digital divide. Oggi il gap di accesso ed utilizzo all’informatica ed alla tecnologia ha ampliato il ritardo di alcune parti del paese con il resto d’Europa, allontanando ancor di più ogni speranza di recupero sociale ed attrazione di investimenti.
Trasferire il controllo delle partecipazioni statali al Ministero delle Attività Produttive.
Incorporazione del dipartimento della Protezione Civile nel Ministero della Difesa.
Eliminazione della divisione in province e regioni ed adozione dei 36 Dipartimenti Amministrativi in sostituzione delle 20 regioni e 100 province, individuate dalla Società Geografica Italiana.
Introduzione di un contratto a costo zero, 0 tasse, 0 contributi, con minimo 1.000 euro per giovani sotto i 25 anni e disoccupati sopra i 55 anni.
Eliminazione di ogni deroga all’età massima pensionabile.
Eliminazione bolli patenti, passaporti, canone tv, Bollo auto, 327 adempimenti sulla sicurezza del lavoro.
Limite massimo degli adempimenti fiscali o burocratici per le aziende fissato per legge con obbligo di accorpamento.
- Il “Gap territoriale”. Il recupero del Sud
Un capitolo a parte meritano le riflessioni su alcune parti del paese che vivono condizioni economiche e sociali inferiori alla media.
Il Sud merita un nuovo racconto. Al Sud manca una narrazione o almeno una lettura veritiera, al di là dei luoghi comuni e dell’errore simmetrico: pregiudizio da una parte, vittimismo dall’altra.
Il Sud è sì sole, mare e cultura; ha come punti di forza, per altro quasi sempre inespressa, l’agricoltura, la logistica, il turismo. Ma, accanto a tutto questo e ad altro ancora, troppo volte si ignora che nel Sud c’è un pezzo importante dell’industria manifatturiera
Nel 2010 il valore aggiunto manifatturiero del Mezzogiorno d’Italia è stato pari a 28,8 miliardi di euro. Si tratta di un valore superiore a quello di nazioni europee come la Finlandia (27,1 miliardi), la Romania (26,9 miliardi), la Danimarca (23,2 miliardi), il Portogallo (20,2 miliardi), la Grecia (19,4 miliardi). E anche singole regioni come la Campania (7,2 miliardi di euro) o la Puglia (6,3 miliardi) hanno evidenziato dati superiori a quelli di nazioni come la Croazia (6 miliardi) o la Slovenia (5,9 miliardi) e la Sicilia (4,8 miliardi) rispetto a quelli della Bulgaria (4,5 miliardi). (Cfr Convegno della Fondazione Edison L’economia reale nel Mezzogiorno).
In tale scenario ne consegue che il primo obiettivo politico-programmatico per il Sud può e deve essere la tutela, la valorizzazione, l’implementazione dell’apparato manifatturiero, attraverso scelte che ne rafforzino la capacità di internazionalizzazione, i livelli di produttività, il capitale umano, gli investimenti in innovazione e ricerca, e amplifichino gli effetti in particolare per la piccola e media impresa.
Le imprese meridionali sono costrette a competere dentro la crisi con la fiscalità di svantaggio. Pagano, infatti, più Irap e più Irpef, rispetto alla media nazionale, per responsabilità del regionalismo fallimentare, a partire dalla gestione della sanità.
Allo “svantaggio” nazionale si aggiunge quello europeo. E’ evidente lo svantaggio determinato per il Sud dall’Europa a moneta unica. Aprire un negoziato impegnativo in sede europea, perché si riconosca al Sud una fiscalità compensativa, è una misura di equità, non una rivendicazione assistenzialista.
La fiscalità di vantaggio per il Sud doveva, infatti, essere contestualizzata all’adozione della moneta unica per accompagnare, almeno per un arco temporale di medio periodo, le conseguenze da essa prodotte, ad iniziare dal venir meno della possibilità di fare ricorso alla cosiddetta svalutazione competitiva.
Altro strumento di recupero della competitività può essere rappresentato da una “banca progetti “ per valorizzare i fondi Fas e Ue:
In passato, senza retorica o nostalgie anacronistiche, il ruolo iniziale svolto da organismi quali la Cassa per il Mezzogiorno e l’Isveimer è stato certamente utile. Entrambi sono stati, infatti, non meri erogatori di contributi e crediti, bensì valutatori di progetti e forieri di investimenti e programmi di crescita. Riteniamo, quindi, che una banca-progetti che ripercorra le iniziali positive esperienze possa svolgere un ruolo complementare a quello della Banca del Sud, determinando un utilizzo virtuoso dei finanziamenti già disponibili e di quelli che si renderanno disponibili in futuro. Si avverte, infatti, il bisogno di dare vita ad un “parco-idee” su alcune linee guida per poter investire, puntando su alcuni significativi assi prioritari.
Da ultimo, non può essere dimenticato il ritardo infrastrutturale, e viceversa le opportunità strategiche per l’economia nazionale che deriverebbero da un serio piano di investimenti sugli impianti e la logistica portuali».
SOVRANITA MONETARIA CHIUSURA DELLE FRONTIERE FUORI DA EURO E EUROPA!!!!
Non mi piace il discorso sull’UE: perché dobbiamo subire euro e burocrazia UE? Paura di urtare la sensibilità dei massoni? Ancora: perché dobbiamo subire la globalizzazione (esistono i dazi!)? Stessa paura?Ma in Italia qualcuno con un po’ di coraggio è rimasto? Che tristezza, vien voglia di andare in Francia; li con la Le Pen possono almeno sognare.Daniele.