Brutta sorpresa al Ministero dello Sviluppo Economico. La scorsa settimana gli eredi di Achille Lauro (il defunto armatore e non il cantante vivente…) hanno citato in giudizio il Ministero per la disastrosa gestione del commissariamento della magnifica flotta imposto, agli inizi degli anni Ottanta, dal potere politico. Un disastro pieno per cui la famiglia Lauro chiede ben due miliardi e trecento milioni di euro. Gli eredi hanno chiamato in causa i burocrati di tredici differenti gestioni commissariali che negli anni hanno distrutto, con rara cialtroneria, un colosso imprenditoriale e un’eccellenza nazionale. Come si legge nella documentazione depositata dall’agguerrito team legale guidato dall’avvocato Maurizio D’Albora: «Benché la legge Prodi avesse previsto un termine massimo di due anni per l’attuazione del piano di risanamento per insipienza e mala gestio dei vertici deliberativi, consultivi e gestionali della Amministrazione straordinaria della Flotta Lauro non è rimasto altro che un enorme cumulo di debiti». Un finale tristissimo di una sorprendente saga partenopea dipanatasi lungo un arco di oltre 60 anni scanditi da una serie di magnifici trionfi e terribili rovesci. Spieghiamo.
Negli anni Venti del secolo scorso ebbe iniziò la straordinaria parabola industriale e umana di Achille Lauro, un giovane armatore di Piano di Sorrento. Tutto cominciò con l’acquisto del piroscafo Iris, il primo a recare sul fumaiolo l’emblema sociale, la celebre stella bianca a cinque punte su sfondo azzurro. Vero self-made man, ottimo marinaio e imprenditore geniale, O’ Comandante, come veniva chiamato a Napoli, costruì dal nulla una flotta di ben 58 unità, attiva dal Mar Nero all’Atlantico, dal Mediterraneo all’Oceano Indiano. Inoltre, a differenza dei suoi parsimoniosi colleghi, Achille ebbe, in linea con le direttive sociali del regime, un’attenzione costante per le condizioni di lavoro dei suoi uomini sino al punto di cointeressare la proprietà delle navi a dipendenti e collaboratori.
Poi la guerra, terribile e impietosa. Ritornato a Napoli nel 1945 dopo un periodo passato in prigionia per i suoi trascorsi fascisti, Lauro era ormai un armatore senza navi — la sua grande flotta d’anteguerra era stata quasi completamente inghiottita dagli eventi bellici — ma l’uomo, assai cocciuto, non si perse d’animo e decise di ricostruirla acquistando cinque navi Liberty statunitensi seguiti a stretto giro dalle unità della classe “Artisti”.
Due scelte imprenditoriali si rivelarono determinanti: l’avvio del servizio di collegamento con l’Australia e il Sud America (iniziato nel 1947 con la nave Ravello), che permise di intercettare la massiccia ondata migratoria del periodo, e la prontezza ad investire, come i genovesi Costa, sui viaggi di crociera. Decisioni coraggiose in grado di precorrere i tempi: in pochi anni la flotta, sapientemente diversificata (crociere, carico secco, petrolio, rotabili, contenitori, rimorchio), arrivò a contare ben 164 unità scalando il vertice delle graduatorie mondiali.
Sull’onda del successo Lauro scese in politica. Sindaco di Napoli dal 1952 al 1957 e per qualche mese nel 1961, più volte deputato della destra monarchica e poi missina, l’armatore, forte del consenso popolare e dei suoi denari — oltre alla flotta, Achille era il proprietario del quotidiano “Roma”, della squadra calcistica cittadina etc.—, cercò di elaborare un proprio progetto, basato su forti tinte populiste (a tratti anche folcloristiche…) nobilitate da visioni non banali, e immaginò un percorso alternativo e molto marittimo per lo sviluppo del Mezzogiorno. Senza successo. Come annota Paolo Frascani, O’Comandante: «Forgiato dalla vecchia cultura marinara, è un esponente di spicco del mondo marittimo italiano, ma non riesce ad interloquire con i poteri forti che, all’interno dell’economia pubblica, gestiscono la ricostruzione della Marina mercantile. La sua perorazione in favore di una Napoli marittima e turistica non si traduce in un reale progetto di sviluppo urbano appoggiato dalle forze economiche e sociali della città».

Non a caso. La Democrazia cristiana di Gronchi e Fanfani vide nel “laurismo” un pericoloso concorrente politico nel Meridione e decise di osteggiarlo con ogni mezzo sino, nel 1957, a commissionare d’autorità il Comune partenopeo. Alle delusioni politiche si accompagnarono negli anni Settanta i problemi della compagnia acuiti dai dissapori familiari: l’impero continuava ad essere gestito in modo verticistico dall’ormai anziano Achille che faticava ad accettare l’indispensabile piano di ristrutturazione proposto da tempo dal figlio Ercole.
Come scrive Tobia Costagliola, autore del libro “La flotta che visse due volte. Storia delle navi di Achille Lauro”, si trattava diun passaggio reso necessario dalle due crisi energetiche del 1973 e del 1978 che avevano generato «nuove problematiche di natura macroeconomica e finanziaria che bisognava essere in grado di monitorare a livello mondiale, non solo prima di prendere qualsiasi decisione d’investimento, ma anche per intervenire a correzione di operazioni già in corso. Si richiedeva quindi un approccio completamente nuovo che andasse ben oltre il sistema e la mentalità con cui Achille Lauro aveva ottimamente operato per tre generazioni».
Solo agli inizi del 1981 — un anno prima della scomparsa del grande vecchio, deceduto il 15 novembre 1982 — la famiglia diede il via libera ad Ercole che si accordò con l‘Istituto mobiliare italianoe le altre banche creditrici per l’alienazione di alcune navi senza perderne la disponibilità, consentendo, comunque, nell’immediato, di accrescere la liquidità finanziaria. Nell’accordo si stipulava che l’importo (43,8 miliardi di lire) sarebbe stato distribuito tra l’Imi e le altre banche creditrici, Italcantieri e fornitori vari, trattenendone circa un terzo nelle casse della flottaper aumentare il capitale circolante necessario alla gestione. Si trattò, come accusa Costagliola, di un terribile inganno:
«Inopinatamente, il ricavato dalla vendita delle navi venne trattenuto dalle banche man mano che gli importi venivano versati dai compratori. L’Imi “fece la parte del leone” e incamerò circa 26 miliardi; la parte restante fu distribuita tra le altre banche e alla flotta Lauro furono lasciate solo le briciole. L’irragionevole persistente rifiuto di alimentare la liquidità corrente della gestione mediante lo sblocco se pur parziale dei noli e del ricavato dalle vendite era la prova evidente che c’era una volontà predeterminata per distruggere la flotta. Il rifiuto era tanto irragionevole quanto inspiegabile perché, nonostante tutto, la situazione patrimoniale del gruppo Lauro (flotta e beni immobili) era superiore alla situazione debitoria». Fu l’inizio di un amarissimo calvario. Stritolati dalle banche i Lauro subirono ogni forma d’angheria e ricatto, il gruppo venne commissariato e subito, complici la politica locale e i governi romani, tanti, troppi «avvoltoi si lanciarono sulla carnosa preda, quando era già ferita a morte».
Il resto è nelle carte consegnate al giudice. Le scellerate decisioni dei vari commissari hanno rovinato un «incommensurabile patrimonio immobiliare» e defraudato la famiglia della «legittima aspettativa di rientrare in possesso di un’importante azienda che, con una gestione oculata, doveva e poteva dirsi risanata e essere riconsegnata ai legittimi proprietari». Sperando nella giustizia, attendiamo la sentenza.