Nablus, Palestina. È morta ieri Riham Dawabsha, la madre del bimbo di 18 mesi arso vivo nell’incendio appiccato da terroristi israeliani — l’ala ultrà dei coloni — alla sua casetta nel borgo di Duma, vicino a Nablus, il 31 luglio scorso. La signora, un’insegnante di 27 anni, era ricoverata con ustioni del terzo grado sul 90 per cento del suo corpo ed è morta nella notte per le ferite riportate. Dopo un mese di straziante agonia.
A dare la notizia sono stati parenti e i bollettini dell’ospedale di Tel HaShomer a Tel Aviv dove la donna era ricoverata, hanno confermato il decesso. I media israeliani e l’agenzia di stampa palestinese Ma’an hanno rimbalzato subito la notizia. I funerali di Riham si terranno a Duma.
L’otto agosto nell’attentato sono morti anche il figlio minore, Ali, e il marito, Saed. L’altro figlio di quattro anni della coppia, Ahmed, rimane in gravi condizioni nello stesso ospedale.
La notizia ha incendiato nuovamente i territori occupati. L’autorità palestinese (un’entità sempre più fragile e incalzata dagli estremisti) ha indetto una “Giornata di collera” per venerdì in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Un modo per far sfogare la rabbia e mantenere gli equilibri interni.
Il governo israeliano si è detto dispiaciuto e ha mobilitato le truppe. Nel frattempo, il premier Netanyahu — con grande irritazione del Likud e dell’opposizione laica — ha confermato la chiusura totale delle frontiere ai profughi siriani. L’ONU non ha protestato e l’inutile Federica Mogherini tace.