Il cinema italiano, dopo una breve stagione di film ambiziosi e interessanti (dal “Cunto dei Cunti” a “Veloce come il vento”, da “Lo chiamavano Jeeg Robot” al primo “Non ci resta che il crimine”), ha ricominciato a rinchiudersi nelle ristrettissime vedute del cinema da salotto del solito dannosissimo circolo dei soliti feudatari – il 2023 è all’insegna dell’autocompiacimento: da Walter Veltroni che con l’imbarazzante “Quando” (con Neri Marcorè, il protagonista meno carismatico e più molliccio che mai film abbia avuto) rievoca la propria militanza nel PCI di Berlinguer, al redivivo Nanni Moretti che con “Il sol dell’avvenire” torna per raccontare i propri patemi d’animo da regista (non bastavano le crisi isteriche del suo alter ego, Michele Apicella) attorniato dalla solita Margherita Buy in piena nevrosi e dal solito Silvio Orlando depresso e pieno di tic, andando giù e ancora giù sino a Roberto Saviano che dirige l’adattamento animato di “Sono ancora vivo”, il fumetto in lode… di lui stesso – e sprecando risorse negli esordi alla regia di Jasmine Trinca (il dilettantesco “Marcel!”) e Pilar Fogliati (il mediocre “Romantiche”).
Il cinema francese ha anch’esso i suoi malanni (per esempio, far fare mezza dozzina di film da protagonista ogni anno a Fabrice Luchini, ex hippy con la faccia da impiegato di banca e una espressione sola, la solita smorfia con i denti in avanti); ma ha anche una intelligenza che ha ricominciato a latitare, nella Cinecittà tornata dominio esclusivo dei soliti Moretti-Comencini-Veltroni-Rohrwacher smaniosi di attenzione per i loro siparietti narcisisti. Se lo scorso anno in Italia si è reso tributo a due colossi quali Dante e Caravaggio col malriuscito pastrocchio di Avati e con l’ennesima strombazzata sciocchezza di Placido, in Francia (mica a Hollywood) si sono riuniti soldi, risorse e capoccioni per concentrarsi su di un grande progetto; si è così scelto un monumento della letteratura – “I tre moschettieri” di Dumas Sr. – al quale dedicare un kolossal a puntate. A Roma, Nanni Moretti che fa terapia di coppia con Margherita Buy per lamentarsi della loro meravigliosa (tanto che da mezzo secolo la raccontano al pubblico) vita da intellettuali della più agiata borghesia romana; a Parigi, un filmone d’avventura tratto da un classico della letteratura.

Prima parte, “D’Artagnan” (i film si fermeranno molto prima della suddivisione letteraria – dove a “I tre moschettieri” seguivano “Vent’anni dopo” e “Il visconte di Bragelonne”). La vicenda è nota a chiunque sia alfabetizzato (quindi alla Generazione Z, la “più informata di sempre” secondo chi ha convenienza a rimbecillirla, di fatto una masnada di analfabeti): nel 1627 D’Artagnan (François Civil) è un aspirante spadaccino, giunto dalla Guascogna a Parigi con una lettera di raccomandazione del padre e la speranza di diventare moschettiere al servizio di Sua Maestà; pochi istanti dopo essersi presentato al suo futuro comandante, riesce a offendere i tre moschettieri più temibili – Athos (Vincent Cassel), malinconico aristocratico con tendenze suicidarie; Aramis (Romain Duris), gesuita violentissimo e donnaiolo; Porthos (Pio Marmai), gozzovigliatore. Ognuno dei tre lo sfida a singolar tenzone, ma il ragazzo dimostra loro il suo valore, diventando il quarto elemento del gruppo. Appena diventati amici (“uno per tutti, tutti per uno”), i moschettieri devono districare la trama degli intrighi del cardinale Richelieu (Eric Ruf), eminenza grigia che, per aizzare re Luigi XIII (Louis Garrel) contro la feccia protestante radunata attorno alla roccaforte ugonotta di La Rochelle, si serve della superspia Milady (Eva Green), bellissima e scaltrissima mignotta dalle risorse inesauribili.
In principio era Eva Green, e il Verbo era presso Eva Green, ed Eva Green era Milady (non per nulla nel film è citato il Vangelo di Giovanni). Proprio la Milady della meravigliosa Eva Green è la principale, se non l’unica, attrazione del film: esagerata sotto qualsiasi aspetto – dall’avvenenza all’intelligenza, dalla perfidia all’abilità – spicca prepotentemente in una sfilata di personaggi ben interpretati ma monodimensionali. D’Artagnan è il proverbiale guascone, il pivello arrogante che nonostante le aspettative di chi è più maturo supera ogni prova; l’Athos di Cassel è sempre triste e l’Aramis psicopatico di Duris (diversissimo dal personaggio letterario) orripilante nella sua pura cattiveria; Porthos è quasi invisibile (e, per pagare pegno alla moda del momento, bisessuale), così come è ridotto in un cantuccio Richelieu (che pure resta uno dei personaggi più affascinanti della storia); soltanto al Luigi XIII di Garrel è attribuita qualche sfumatura, qualche coloritura di carattere. Le svenevolezze tra D’Artagnan e Costance e quelle tra la regina Anna e il duca di Buckingham inducono a tifare per i “cattivi”.
Gli scoppi di violenza si susseguono con monotonia, i colpi dei moschetti ritmano il film più della colonna sonora di Guillaume Roussel. Martin Bourboulun (già regista di “Papa ou Maman”, da cui il remake italiano – “Mamma o papà?” con la Cortellesi e Albanese; e della biografia di Gustave Eiffel) dirige la sceneggiatura, ridotta al minimo, di Matthieu Delaporte e Alexandre De La Patellière (che gli hanno già scritto “Papa ou Maman”), altre volte più efficaci. Fotografia scurissima (la moda ormai è questa) di Nicolas Bolduc.
Questo francesissimo “I tre moschettieri” redime comunque la vergogna del più recente adattamento hollywoodiano, l’orrendo baraccone diretto in 3D nel 2011 da Paul W.S. Anderson, con la moglie Milla Jovovich sola a salvarsi nei panni di Milady. Vedremo se il secondo episodio si sviluppa meglio: la buona notizia è che c’è ancora Eva Green.