Atlanta, 1996: Richard Jewell è un bambinone di oltre trent’anni. Vive con la madre e un cagnolino; affascinato dalle divise, rincorre il sogno di diventare un grande poliziotto: ma è obeso e un po’ petulante. Dopo aver perso, per l’osservanza meccanica e pedante dei regolamenti, vari posti di lavoro, si ritrova nella vigilanza dei concerti che accompagnano le Olimpiadi, al Centennial Park. Proprio qui, grazie alla sua attenzione maniacale, scoprirà un attentato dinamitardo, che farà due morti e oltre cento feriti: ma senza l’allarme lanciato da Jewell, il bilancio sarebbe stato molto peggiore.

Ma i pettegolezzi del preside di un college in cui era stato vigilante, l’invidia di un agente FBI presente all’attentato, la delazione d’un falso amico e una giornalista in cerca di scoop sensazionalistici scatenano contro di lui una soffocante campagna inquisitoria: dopo appena tre giorni di gloria, Jewell sarà additato, per lunghissimi mesi, agli interi Stati Uniti d’America come bombarolo in cerca di notorietà. Lo aiuteranno soltanto la madre, un amico rimasto fedele, il solo avvocato che lo abbia trattato con gentilezza quanto Jewell lavorava per il suo ex studio, e l’assistente di quest’ultimo
“Richard Jewell” è un altro bel film dell’eroe di Carmel, che dopo aver fatto seguire, alla meraviglia del dittico “Lettere da Iwo Jima” – “Flags of Our Fathers” (2006), il suo film migliore: “Gran Torino” (2008), aveva imboccato, per un intero decennio, un tunnel di film medi (fra i quali almeno uno davvero brutto: “Invictus”). “The Mule” (con Clint di nuovo, oltre che regista, attore), girato nel 2018 e distribuito in Italia a inizio 2019, non arriva di poco al livello di opere immense come “Million Dollar Baby”, ma ha riportato il vecchio cowboy a quel grande cinema. “Richard Jewell” è un poco minore rispetto a “The Mule” (più complesso e aggressivo), ma è un altro grande film. Alla vigilia dei 90 anni, Clint Eastwood si conferma cineasta di grandissimo valore, con un film che riesce a essere elegante permettendosi qualche libertà (un’inquadratura col “fish-eye” visto in soggettiva impossibile – Jewell non può vedere se stesso di fronte; una scena onirica di profondo scavo psicologico – Jewell rimpiange di non essere saltato in aria – risolta col solito risveglio di colpo).
Il tema è quello consueto: la rivalsa d’un piccolo antieroe americano; nello specifico, l’oggetto polemico è la cattiveria dei media e dei loro processi. Non si arriva infatti a un autentico scontro giudiziario; l’inquisizione è tutta al di fuori, in piena dittatura dell’incompetenza.
Il martirio di Jewell è una rassegna d’idiozie: dal meschinissimo preside del college, che affronta gli interlocutori guardando una propria gigantografia; alla giornalista cinica, affamata di scoop e zoccola; al manichino bonazzo del FBI che si accanisce su Jewell perché rifiuta l’idea che un ciccione sfigato col marsupio si sia dimostrato un poliziotto più bravo di lui. Una caccia all’uomo motivata da piccinerie, e condotta nel modo più stupido possibile – l’efficienza maniacale che porta al sequestro dei “tupperware” non è perizia, ma solo la copertura della mancanza di serietà. Le risposte sono tutte evidentissime (basta cronometrare un tragitto a piedi), ma il gioco crudele dello sbattere il mostro in pagina esige una vittima già designata: basterà una domanda, semplicissima, a spazzare il castello di carte.
“Richard Jewell” è un atto d’accusa alle glorie americane più sordide (Jewell cui si spezza il cuore perché capisce che lo stessa del FBI non lo affascinerà più) e alla stampa che si sostituisce alla polizia e ai tribunali.
Proprio la polemica anti-mediatica del film ha portato ad accuse di diffamazione.
Olivia Wilde si è ritrovata bersaglio degli “hater”, gli odiatori da “social network”, per il suo ritratto della giornalista, in forza all’Atlanta Magazine, Kathy Scruggs (la cui carriera fu rovinata proprio dalla scoperta dell’infondatezza delle sue accuse a Jewell). L’attrice si è ovviamente difesa dicendo d’aver soltanto recitato quanto previsto dalla sceneggiatura.
Il ritratto della Scruggs è in effetti il punto più debole del film: è una cronista d’assalto caricaturale, degna dei fumetti di Topolino: un luogo comune, la macchietta della giornalista pronta a tutto per un articolo in prima pagina. I suoi colleghi (comunque offesi dall’immagine che il film propone della stampa americana nel suo insieme) ne hanno difeso la memoria: senz’altro aveva il carattere urtante che si vede nel film, e la sua fame di articoli l’ha portata a errori madornali come quello che rovinerà la vita sua e dell’agente di sicurezza. Però, lamentano, non arrivava a concedersi carnalmente in cambio di rivelazioni.
Nato nel 1962, Richard Jewell morirà nel 2007 per un infarto, conseguenza del diabete (proprio come un altro grande inquisito di cui abbiamo recentemente scritto: Craxi). Il dinamitardo, Eric Rudolph, responsabile di altri attentati e affiliato a congreghe protestanti, è nato nel 1966 e sta scontando l’ergastolo. La giornalista Kathy Scruggs, nata nel 1958, è morta nel 2001 per abuso di morfina.
Nel film, l’autentico Richard Jewell compare per una volta: durante l’intervista televisiva trasmessa il giorno dopo l’attentato – prima di essere travolto dai sospetti.
Lo scorso anno, Hollywood ha trattato con disdegno uno dei film migliori di Eastwood: “The Mule”, sberleffo ai fighetti di “millennial” e “generazione X”: nemmeno una nomination per uno dei film più belli e politicamente scorretti del gigante californiano.
A questo giro, ha avuto una sola nomination – la stessa, sia ai Golden Globe che agli Oscar: Kathy Bates miglior attrice non protagonista. Per entrambi i premi, le si è preferita Laura Dern (che ha un trascorso con Eastwood: “Un mondo perfetto” del 1993, ma è nota soprattutto in quanto musa del Lynch peggiore). Se ne farà una ragione: ha già vinto la statuetta per la magistrale interpretazione di “Misery non deve morire”. E se fra gli attori candidati agli Oscar 2020 ci sono nomi come Banderas, Theron, Johansson, Pitt, Hanks, e si finisce per premiare Phoenix che interpreta l’ennesimo lunatico che fa le solite smorfie, una grande attrice si può mettere il cuore in pace.
Kathy Bates e Clint Eastwood sono legati da una forte amicizia pluridecennale, ma “Richard Jewell” è la loro prima collaborazione (la Bates si è detta fiera per il coronamento di cinquant’anni di carriera). Davvero bravo il protagonista, Paul Walter Hauser, a rendere un personaggio più complesso di quel che si può credere; impegno minimo richiesto a Olivia Wilde e Jon Hamm, relegati in due ruoli stereotipati (la giornalista con la bava alla bocca e l’agente FBI borioso). Il migliore è forse Sam Rockwell, nel ruolo di Watson Bryant, il grintosissimo avvocato di Jewell.
Montaggio di Joel Cox, veterano eastwoodiano. Tra i produttori Leonardo Di Caprio: sembra ormai deposta l’ascia di guerra con Eastwood (sul set di “J. Edgar”, nel 2011, si tolsero il saluto).
Uno dei trailer con i quali il film è stato annunciato vede il tradizionale montaggio di spezzoni del film alternato a un brevissimo discorso di Clint Eastwood: “Richard Jewell è stato un eroe, volevo raccontare la sua storia da molti anni. Volevo che il mondo conoscesse la verità”. Un artista che corregge i cronisti, un’opera di finzione che ripara alle bugie di chi racconta la realtà.