20 luglio 1974, sabato: le truppe turche sbarcano in forze sulla costa settentrionale di Cipro. La risposta di Ankara al golpe che a Nicosia ha destituito il presidente monsignor Makarios non si è fatta attendere. L’obiettivo turco è quello di impedire l’enosis, l’unione tra la Grecia e Cipro, progetto coltivato dalla giunta militare di Atene e dalle forze che destituiscono Makarios.
Nel giro di un mese l’esercito di Ankara controlla circa il 36% dell’isola. Circa 200mila greco-ciprioti sono costretti ad abbandonare città e villaggi nella parte settentrionale di Cipro in direzione sud, quasi 50mila turco-ciprioti compiono il percorso inverso. Dalla fine dell’estate 1974 la linea verde – l’area cuscinetto sotto controllo delle Nazioni Unite – taglia in due l’isola da nord a sud, la capitale Nicosia è l’unica città d’Europa ad essere attraversata – ancora oggi – da un confine militarizzato.
Un “muro”, quello cipriota, che nel corso di questi 47 anni si è progressivamente rafforzato. Se qualche speranza di riunificazione si era accesa nel 2017, la tornata di incontri informali svoltasi ad aprile di quest’anno ha fatto registrare un forte arretramento dell’idea stessa di riunificare l’isola, dando vita ad uno stato federale a forte decentralizzazione. A porre la pietra tombale su questa ipotesi è stata, infine, la Turchia, per bocca del suo inviato presso la Repubblica turca di Cipro del Nord (stato non riconosciuto a livello internazionale): “Non parteciperemo più – ha detto Ali Murat Basceri lo scorso novembre – a colloqui che prevedano una soluzione federale, ma ci impegneremo per una soluzione a due Stati che rifletta le diverse anime dell’isola”.
Quanto conti la voce di Ankara nella questione lo ha ben evidenziato la presa di posizione del presidente della Repubblica turco-cipriota Ersin Tatar, secondo cui il suo Paese non rinuncerà mai al ruolo di garante della Turchia. La divisione di Cipro sembra, dunque, consolidarsi nel tempo, complice anche il progressivo perdersi della memoria stessa di uno stato unitario nella popolazione dell’isola.
Lo status di Cipro, tuttavia, è qualcosa di più che una partita a quattro tra le due comunità isolane ed i rispettivi sponsor, Grecia e Turchia. Cipro, o meglio il controllo su almeno una parte di essa, è un obiettivo strategico irrinunciabile per la Turchia, protesa a superare i soffocanti confini della penisola anatolica con un nuovo protagonismo mediterraneo. Una visione strategica condensata nella dottrina della Mavi Vatan (Patria blu), secondo cui il futuro della Turchia dipenderà dal controllo che riuscirà ad esercitare sui mari che la bagnano. L’impegno turco in Libia risponde a questo imperativo, mentre Cipro è un trampolino indispensabile per il raggiungimento dell’obiettivo strategico.
Oltre che per lo sfruttamento delle risorse energetiche del Levante, gas in particolare. Già in diverse occasioni navi militari turche hanno bloccato le prospezioni di Eni e Total nelle aree loro assegnate sulla base di accordi con il governo cipriota. Non è un caso che Parigi abbia deciso di rafforzare la collaborazione con Atene, inviando frequentemente proprie navi in Egeo e rifornendo gli arsenali greci. L’Italia? Al solito non pervenuta. Eppure il limes cipriota rischia di diventare – o forse lo è già – la nuova faglia critica del Mediterraneo, probabilmente la principale.