Al “Fatto Quotidiano” si sono scandalizzati, poche settimane fa, per una scena di “Quando”, il film (forse il più brutto girato in Italia dal Duemila a questa parte) di Walter Veltroni tratto da un suo romanzo (o meglio, come precisa la locandina: “opera letteraria”) e riguardante la sua nostalgia di Botteghe Oscure – insomma, il trionfo dell’autoreferenzialità: a spese della commissione film della Regione Lazio, i cui cittadini saranno stati entusiasti all’idea di pagare l’ennesimo capriccio cinefilo dell’ex direttore dell’Unità. Davide Turrini si è scagliato, sulle pagine del giornale di Padellaro, contro “la revisione politica di Tangentopoli e le monetine su Craxi”: il protagonista, Giovanni – interpretato dal sempre mollissimo Neri Marcorè – ha avuto un gravissimo malore al funerale, nel 1984, di Sua Santità Enrico Berlinguer, ed è rimasto in coma un trentennio abbondante (lo sveglia una suora con le sembianze di Valeria Solarino: dagli con la fantasia..); quando, con l’ausilio d’un tablet, gli si propone una parata dei fatti intercorsi durante il suo lunghissimo sonno coatto, vede l’aggressione (a Largo Febo, incantevole piazzetta romana accanto alla celeberrima Piazza Navona, il 30 aprile 1993) ai danni di Craxi (che lì, all’Hotel Raphael, aveva il suo domicilio romano), sconvolto Giovanni definisce l’agguato al leader socialista “una cosa brutta”: d’accordo, dice, lo avevamo fischiato al funerale di Sua Eminenza San Enrico, ma solo perché quando l’eroe sassarese era andato a un congresso socialista era stato accolto nello stesso modo (sorvolando sul fatto che i socialisti, all’assemblea veronese del maggio ’84, stavano soltanto esprimendo la loro esasperazione per anni di scorrettezze, insulti, cattiverie, dossieraggi in stile Stasi, opposizione aprioristica e ottusa).
L’articolista del FQ vede insomma con contrarietà che il postcomunista Veltroni ripensi con rammarico a un gesto violento perpetrato ai danni d’un avversario. Turrini non ha torto: Walter Veltroni, durante Mani Pulite, era il direttore dell’Unità, che sulle sue colonne ospitava articoli molto aggressivi nei confronti del PSI agonizzante e del suo leader, con un linguaggio non molto dissimile dall’apologia del linciaggio proposta, negli stessi giorni dell’aggressione, da Gianfranco Miglio, l’ideologo della Lega Nord. Veltroni c’era, Veltroni partecipava, Veltroni era consapevole: che in un film fatto uscire nei cinema poco prima del trentennale d’uno dei fatti più clamorosi invece si schermi dietro il suo solito buonismo da eterno adolescente secchione con in camera il poster di Kennedy e quelli dei film di Spielberg, un po’ è patetico, un po’ è ripugnante.

“Anche se ora ve ne fregate, voi quella notte, voi c’eravate… anche se ora vi siete assolti, siete lo stesso coinvolti”: l’invettiva di Fabrizio De André contro i postsessantottini ripuliti (e che sarà proposta, con toni persino più feroci, in “Amico fragile”: profezia – già nel 1975 – di quel che diventeranno i postcomunisti del centrosinistra negli anni ’90). Lo scorso gennaio, mentre ad Hammamet delegazioni dei partiti di centrodestra (escluso Fratelli d’Italia: per distrazione, per scelta, chissà) celebravano la ricorrenza della morte in esilio del primo inquilino socialista di Palazzo Chigi, “Repubblica” – pur sempre il giornale fondato da uno dei più acerrimi nemici di Craxi – ha provato a ridimensionare l’episodio del Raphael, con un articolo firmato Concetto Vecchio: “Il (falso) mito delle monetine al Raphael”. Giusto: l’espressione con cui ci si riferisce all’episodio – “le monetine all’uscita dell’hotel Raphael” è fuorviante, ma non come inteso da Repubblica: perché non si trattò di un beffardo lancio di monetine, ma d’un tentativo di linciaggio: oltre ai gettoni furono lanciati accendini, ghiaia, ombrelli, e le automobili della polizia furono portate a riparare, dato che le carrozzerie erano state sfasciate a colpi di casco. Ai seguaci di Barbapapà Scalfari va riconosciuta la coerenza del soldato giapponese che se ne sta asserragliato sull’isoletta senza sapere che il mondo è cambiato.
Venerdì 28 aprile, due giorni prima del trentennale del Raphael, il “Corriere della Sera” (che già domenica 16 aveva ospitato una pregevole intervista di Aldo Cazzullo a Stefania Craxi) dedica invece al fattaccio un articolo di ben altro tono, firmato da Claudio Bozza, che ha intervistato alcuni dei coprotagonisti di quella serata romana: Gherardo Colombo (PM a Milano, facente parte del pool di Mani Pulite e perciò uno dei grandi accusatori di Craxi); Achille Occhetto (traghettatore della “svolta della Bolognina”: ultimo segretario del PCI e primo del Partito Democratico della Sinistra, la sigla che attraverso evoluzioni e soprattutto involuzioni diventerà l’attuale PD); Francesco Storace (allora militante del MSI e giornalista del Secolo d’Italia; poi uno dei “colonnelli” di Alleanza Nazionale, presidente della Regione Lazio e Ministro della Salute); Luciano Del Castillo (il reporter che scattò l’unica foto rimasta dell’episodio; le altre immagini sono fermi-immagine dai servizi del telegiornale).
La narrazione dell’episodio è di unanime condanna: in questi trent’anni qualche stregone sembra aver lanciato sull’Italia un incantesimo, dato che all’epoca dei fatti oltre il 90% dell’opinione pubblica concordava, coi lanciatori di monetine, sul fatto che Craxi andasse impacchettato. Gherardo Colombo non è nuovo a ripensamenti (tardivi) sull’epopea della quale fu protagonista: come Francesco Saverio Borrelli (ma a differenza di Davigo, D’Ambrosio e Di Pietro), il riccioluto brianzolo, ex magistrato poi scrittore autoproclamatosi guida morale degli italiani, grandi e piccini (dalla “Costituzione attraverso le domande dei bambini” a “Anche per giocare servono le regole”), negli anni scorsi ha cominciato ad ammettere di avere dubbi su quanto successo con Tangentopoli (assai più netto il suo collega napoletano, che arrivò a dire che Mani Pulite aveva sostituito il sistema della Prima Repubblica con uno assai peggiore). Gherardo Colombo lamenta, nell’articolo del Corriere, che già in presa diretta l’aggressione di Largo Febo gli fece raccapriccio: a Craxi, deplora, fu calpestata la dignità, il PM fu sconvolto dall’ira giustizialista della folla.
Era la fine dell’aprile 1993, Colombo osservò con raccapriccio a quali barbarie può portare la foga giustizialista; ma chissà perché a metà luglio del 1994, quando il governo disse ai magistrati che la carcerazione preventiva al fine di estorcere confessioni è un abuso di potere (come ha scritto Andrea Orsini sul Riformista, nel 2020: il decreto Biondi era una semplice questione di civiltà), lui e Borrelli e compagnia cantante andarono in televisione, con la barba incolta di Di Pietro a testimoniare quanto fossero stressati, a berciare che il “decreto salva-ladri” impediva alla giustizia di fare il suo corso, che agli inquisitori non si poteva negare il diritto di mettere i sospettati sotto torchio (ma agli inquisiti si poteva negare la presunzione d’innocenza), cominciando così l’interminabile tradizione per la quale i magistrati difendono il proprio diritto all’onnipotenza paventando ingerenze della politica (le ingerenze della magistratura in politica sono invece ammesse). Fra i molti pamphlet con i quali l’Harry Potter di Briosco predica a noi trogloditi come essere cittadini migliori, responsabili e civili, vi è “Il vizio della memoria”: nel 2023 Colombo ricorda di essersi scandalizzato per la furia giustizialista nel 1993, ma nel 1994 non rammentava questo suo sdegno risalente all’anno precedente. Nel 2023 Colombo deplora che Craxi sia stato “messo alla berlina”; chissà se ricorda che nel settembre 1992 un galantuomo bresciano, Sergio Moroni, si è tirato una fucilata in faccia per non essere esposto a una gogna che sapeva di non meritare.
Non bastassero le imbarazzate, ma soprattutto imbarazzanti, giravolte di Gherardo Colombo, l’articolo offre – oltre alla testimonianza del fotografo Del Castillo, il solo intervistato con le idee chiaro – uno scaricabarile reciproco fra Occhetto e Storace. L’ex presidente della regione ripete quanto già sostenuto da Fabio Rampelli, tuttora deputato (e vicepresidente della Camera) e allora uno dei “gabbiani” dell’agonizzante MSI: ad aggredire Craxi fuori dall’hotel Raphael i missini non c’erano, o meglio c’erano ma erano pochi, e quei pochi anzi pochissimi erano lì solo per vedere, non hanno tirato manco uno spicciolo o se proprio gli è scappato comunque l’iniziativa non è stata loro – chissà perché allora il racconto di Teodoro Buontempo che raccoglie monete per distribuirle tra i militanti e lanciarle, in trent’anni, non era stato ancora smentito. Non c’è nessun mistero, i militanti missini in Largo Febo c’erano: erano pochi, erano minoritari rispetto alla folla, composta per lo più da militanti della Rete di Leoluca Orlando e Dalla Chiesa jr e soprattutto del PDS (il drappello leghista fu tagliato fuori e rimase bloccato in Via Zanardelli); il sacchetto di monete raccolto da “Er Pecora” da solo non bastava a coprire la piazzetta, ma i ragazzi radunati attorno al missino di Carunchio comunque le lanciarono. Non è dato stabilire se Storace e/o Rampelli abbiano partecipato all’episodio; se anche fosse, vi avrebbero partecipato da semplici militanti.

Quel che rende tanto più grottesco l’intervento di Achille Occhetto, è che costui ne è stato invece ideatore, fautore, diretto responsabile. Assieme a Giuseppe Ayala e Francesco Rutelli, proprio Occhetto fu protagonista del comizio in Piazza Navona (mentre Gianfranco Fini faceva sfilare, nei pressi di Montecitorio, i ragazzi missini che avrebbero poi raggiunto Buontempo): comizio inscenato per protesta contro la negazione di quattro autorizzazioni a procedere su sei a carico di Craxi, e tenutosi guarda un po’ accanto alla dimora romana del “Cinghialone”: Largo Febo è collegato a Piazza Navona da Via dei Lorenesi, un vicolo lungo poco più di venti metri. I quotidiani di tutta Italia invocavano un castigo per Craxi, i telegiornali non erano da meno, e gli astanti al comizio, intervistati in diretta, ripetevano che non se ne poteva più, che andava fatta piazza pulita, che si dovevano castigare un’intera classe politica o almeno accontentarsi della preda più ghiotta (da ciò il soprannome rifilato da Feltri a Craxi). Da mesi l’Italia era attraversata da una smania giustizialista con tratti feroci, i suicidi erano accolti con sarcasmo dagli inquirenti e da qualche giornalista, i socialisti erano aggrediti per strada, la moglie di Craxi era accolta da insulti appena saliva sul tram per andare al mercato, l’opinione pubblica era quasi interamente ostile al PSI e al suo ex segretario: tenere un comizio, dai toni aggressivi, nella piazza accanto alla dimora del più noto capro espiatorio, invitare i militanti e dirigervisi, e dopo trent’anni – cambiate, almeno da alcuni, le letture degli eventi e della recente storia politica italiana – dire “non sapevo, non immaginavo, non avrei mai voluto, fosse stato per me non sarebbe successo” è un po’ patetico, un po’ raccapricciante.
Il ripensamento è più che lecito, il ravvedimento anche di più: sarebbe lodevolissimo, se qualcuno dicesse “sì, c’eravamo, abbiamo detto e fatto quelle cose, e a ripensarci ci rendiamo conto d’aver sbagliato”. Colombo e Occhetto che però se ne escono col dire che non era loro intenzione provocare (per quel che riguarda Occhetto, direttamente) un tentativo di linciaggio, sono il riassunto di un atteggiamento che da mezzo affligge chiunque si trovi ad avere a che fare con la sinistra italiana: la sua pretesa di autoassoluzione. Si va dagli “indiani metropolitani” che andavano col cric a minacciare i crumiri (rifiutando di considerare che costoro, a differenza loro, di lavorare avevano la necessità) e adesso dicono che negli anni Settanta non è successo niente, sino appunto a un magistrato che ha predicato il giustizialismo e un ex leader politico che si è accanito su di un avversario e ora dicono che mai e poi mai loro avrebbero fatto proprio quello che, i fatti parlano chiaro, hanno fatto.
La sinistra postcomunista è formata dalla peggior borghesia che l’Italia abbia mai avuto: quella che tra il ’68 e il ’77 si è laureata con il 18 politico, e per di più nell’università di massa – insomma: senza studiare, e formando perciò una classe dirigente priva di qualità ma ricca di liquidi; non per nulla è la stessa borghesia che si ammanta d’una superiorità culturale insussistente, per poi plaudere agli editoriali con cui Michele Serra (quello che divulgò l’indirizzo tunisino di Craxi sperando che l’Interpol lo catturasse) ripete che la meritocrazia va abbattuta. Ma come si fa ad abbattere qualcosa che in Italia non c’è, dato che proprio Serra e i lettori adagiati sulla sua amaca sono, senza alcun merito, la parte più privilegiata, garantita, sistemata, accomodata d’Italia?
Una borghesia nullafacente, incapace, insipiente, dogmatica, astiosa e intollerante, che si vanta d’essere più colta di qualsiasi altra parte politica (dai berlusconiani ai leghisti, sino ai grillini coi quali però si è alleata) ma poi predica che la meritocrazia va distrutta, con buona pace di Gramsci il solo strumento di promozione sociale non è lo studio ma il censo di mamma e papà; che si vanta di essere la monopolista della bontà, della correttezza, dell’eleganza per poi essere sempre, sistematicamente e metodicamente, scorretta e maligna (in pochi se ne sono accorti, perché siffatti atteggiamenti ormai non fanno notizia: la neosegretaria del PD non ha speso una parola, fosse anche per semplice formalità, per l’ex leader del centrodestra finito in ospedale con la diagnosi di leucemia), con forme anche patologiche (dai dossieraggi in stile Stasi all’ormai permanente stato isterico con cui si vedono ovunque tracce di fascismo); che ha davvero rovinato l’Italia, distruggendo il diritto al lavoro e l’istruzione di alto livello, diffondendo il ribrezzo per la nazione e la cultura in cui si vive e dandosi alla smania immigrazionista; che continua ad agitare lo spettro della mafia al solo scopo di tenere in piedi il teatrino dell’antimafia (nel cui nome, se ne ha l’ennesima riconferma in questi stessi giorni, è stato esaltato un personaggio come Nino Di Matteo e sviliti invece Mario Mori e Giuseppe De Donno), che a sua volta è l’ennesimo mezzuccio per attribuirsi una qualche supremazia etica (puntualmente smentita da dettagli come le condanne a carico del solito Saviano).
Erano anni che questa borghesia di sinistra si autoassolveva da quel disastro che, lo si era capito da anni, è stato Mani Pulite, attribuendo a Craxi la colpa dell’attuale mancanza d’un autentico centrosinistra. Non fosse che il vuoto occorso con la distruzione del PSI lo hanno provocato loro; che quando il PDS, dopo la prima batosta della patetica macchina da guerra di Occhetto, si è mutato in Ulivo, non lo aveva ancora colmato; e che allora due dei loro beniamini (giusto per il laicismo e la droga, mica per motivi seri), Marco Pannella ed Emma Bonino, avrebbero potuto riempire quello spazio, ma hanno preferito invece continuando a flirtare col miglior offerente e a trastullarsi coi propri deliri egoici.
Come dice l’Ecclesiaste, “nulla di nuovo sotto il sole”. Facevano, in nome di Marx e del proletariato, i picchiatori dei lavoratori: e ora dicono che non c’è stata alcuna stagione di violenza. Hanno distrutto, da sinistra, la stessa sinistra italiana: e provano a dire che è colpa di colui che ha provato a salvarla dalle loro grinfie. Hanno aizzato una folla contro un loro avversario politico: e ora dicono che erano contrari a un fatto così vergognoso. “Veritas filia temporis”: gli scheletri – tanto più se della corporatura del Cinghialone – spingono per uscire dall’armadio. Tic tac tic tac.
“Verremo ancora alle vostre porte, e grideremo ancora più forte: Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.
Articolo bellissimo. Sulla rovina dell’Italia tuttavia, abbiamo tutti le nostre colpe. Non abbiamo fatto e non facciamo abbastanza per imprimere una svolta
alle cose. Esempio, come mai non si scende in strada contro l’immigrazione ? Perché non si protesta massicciamente contro la deriva gender che malignamente penetra nel mondo dell’istruzione ? Se è vero che la storia è fatta di minoranze agguerrite in grado di condizionare e perfino orientarne la rotta, allora come maggioranza abbiamo fallito. Pertanto, forse é il caso di allevare una nuova élite, supportata da un contro potere finanziario rilevante, per dichiarare senza mezzi termini guerra al declino della nostra civiltà e ai suoi fautori.
Buonasera Francesco, e molte grazie per l’apprezzamento. Riguardo i problemi che rileva sono d’accordo con Lei, così come sul fatto che la destra italiana – almeno quella partitica – non si rende conto che una battaglia culturale è indispensabile. Sarà per il solito complesso d’inferiorità, sarà per pigrizia, sarà per disinteresse… nel nostro piccolo, insistiamo. Ancora grazie e un caro saluto.