Era il 12 dicembre scorso quando presunti ambientalisti azeri avviarono le manifestazioni nel corridoio di Lachin: obiettivo, bloccare la strada che collega l’Armenia al Nagorno Karabakh. Da quella data, gli armeni che abitano storicamente nella regione hanno vissuto isolati dal resto del mondo, dovendo fare i conti con la carenza di cibo e farmaci, l’interruzione delle forniture di energia elettrica e gas da parte dell’esercito azero e l’impossibilità per i malati di ricevere cure adeguate fuori dall’Artsakh (nome storico della regione, assunto dall’autoproclamata repubblica tramite un referendum nel 2017). Dopo duecento giorni di blocco azero, i 120 mila armeni dell’Artsakh – di cui 30mila bambini – non vedono soluzione alla profonda crisi umanitaria. A nulla sono serviti i tanti appelli internazionali, compresa una sentenza della Corte internazionale di giustizia del febbraio scorso sulla revoca del blocco non rispettata dall’esercito di Baku.
L’aggressione dell’Azerbaigian alle popolazioni armene è continuata senza sosta nonostante la Dichiarazione tripartita per il cessate il fuoco e la presenza dei peacekeepers russi (duemila uomini stanziati nel corridoio dalla fine della guerra del 2020), arrivando a una pericolosa escalation nelle ultime settimane. A fine aprile, le forze armate azere hanno istituito un checkpoint illegale sul ponte Hakari (in un punto del corridoio di Lachin più vicino al confine armeno) andando sostanzialmente a sostituire il presidio dei presunti ambientalisti. È qui che dal 15 giugno scorso sono stati bloccati tutti i trasporti umanitari dentro e fuori dall’Artsakh, negati persino ai mezzi della Croce Rossa fino a pochi giorni fa. L’obiettivo di Baku è chiaro: prendere il totale controllo del Nagorno Karabakh facendo di fatto scomparire la storica identità armena di quella terra. Dalla guerra dei 44 giorni (27 settembre-9 novembre 2020) l’Azerbaigian ha conquistato più della metà dei territori appartenenti alla Repubblica dell’Artsakh, adesso quantificabili in circa 3mila chilometri quadrati.
Le periodiche aggressioni militari azere sono culminate ieri con l’uccisione di quattro militari dell’esercito di Artsakh attraverso l’uso di artiglieria e droni turchi. L’operazione – chiamata “Vendetta” dall’esercito di Baku – sarebbe avvenuta in risposta a un presunto attacco giunto dalle postazioni karabakhe. Ed è anche su questo che fa leva il regime guidato da Ilham Aliyev: diffondere disinformazione preparando il terreno a iniziative militari che, data la frequenza degli ultimi tempi, possono far presupporre la volontà di avviare un’operazione speciale su larga scala. A dimostrazione della sostanziale inerzia internazionale, l’ultimo attacco è stato perpetrato contemporaneamente ai colloqui tenuti negli Stati Uniti tra i ministri degli Esteri armeno e azero. Baku non ha perso occasione di dimostrare la sua forza contro il piccolo esercito dell’Artsakh, ma i suoi obiettivi guardano anche oltre. L’attuale occupazione azera di 150 chilometri quadrati del territorio sovrano dell’Armenia (dati ufficiali del governo di Yerevan) è indicativa.
Nella zona di Sotk, dove è presente una miniera d’oro, gli scontri sono stati ripetuti, così come in direzione della regione meridionale di Syunik (dove l’Armenia confina per un breve tratto con l’Iran) e, a ovest, ai confini della exclave azera Nakhichevan. Qui, la volontà azero-turca è quella di unire Baku e Ankara attraverso il corridoio di Zangezur (dal nome della catena montuosa circostante), che taglierebbe di fatto il confine armeno-iraniano. Il Caucaso meridionale rischia di diventare una polveriera, ma l’Azerbaigian, forte dei suoi giacimenti di petrolio e gas naturale, prosegue indisturbato il suo attacco alle popolazioni armene. La solidarietà internazionale agli aggrediti, qui, continua a parole.