Mattina del 6 novembre 1975: circa 350mila civili marocchini attraversano la frontiera che separa il territorio sotto la sovranità di Rabat ed il Sahara occidentale, uno degli ultimi lembi dell’impero coloniale spagnolo. La mobilitazione popolare – che di spontaneo ha ben poco – precede di poche ore l’ingresso di alcune colonne dell’esercito marocchino in territorio spagnolo. Nessuna violenza accompagna la sortita marocchina: i reparti del Tercio che presidiano la colonia hanno abbandonato numerosi posti di frontiera, l’ordine è di non aprire il fuoco per evitare vittime civili.
Pochi mesi dopo, nel febbraio del 1976, la Spagna abbandona definitivamente il Sahara occidentale, territorio che viene occupato da Marocco e Mauritania, con buona pace della proposta di un referendum da celebrarsi al momento della decolonizzazione, al fine di consentire al popolo saharawi di decidere sul proprio futuro. Nel 1979 la Mauritania raggiunge un accordo con il Fronte Polisario – principale movimento indipendentista saharawi – e ritira le proprie truppe dalla regione, rendendo di fatto il Marocco unico occupante del Sahara occidentale. Da allora una guerra lunga e sanguinosa ha portato Rabat a controllare la gran parte dell’ex colonia spagnola, grazie anche alla costruzione di un muro lungo ben 2.790 chilometri. Barriera armata e dotata di dispositivi di controllo e sorveglianza tecnologicamente sempre più avanzati, rivelatasi praticamente insuperabile per le forze combattenti del Polisario.
Negli ultimi mesi questa guerra congelata è tornata ad essere un fronte caldo: dal novembre dello scorso anno i combattimenti sono andati via via. A rivitalizzare il quarantennale conflitto tra Marocco e Repubblica araba saharawi democratica (questo il nome dello stato non riconosciuto dei saharawi) ha contribuito in maniera determinante il rapido deteriorarsi delle relazioni tra Marocco ed Algeria, storica protettrice del Polisario. Ad innescare l’incendio la possibilità di un riconoscimento de jure dell’occupazione marocchina del Sahara occidentale quale contropartita per la decisione di Rabat di aderire agli accordi di Abramo, ovvero l’intesa – mediata dagli Usa di Trump – destinata a normalizzare i rapporti tra Israele da un lato ed Emirati Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco dall’altro. Il tutto in chiave anti Teheran.
Dall’estate in poi si è assistito ad un crescendo: Algeri ha aumentato il sostegno militare al Fronte Polisario, mentre a luglio Rabat ha annunciato il proprio sostegno al Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia, regione algerina dove non mancano fermenti ribellisti ed autonomisti. A fine agosto i due Paesi hanno rotto i rapporti diplomatici, per arrivare alla chiusura del gasdotto Gaz-Maghreb- Europe che, partito dall’Algeria, raggiunge la Spagna attraversando il Marocco. Sullo sfondo, ma non troppo, la rivalità tra le diverse potenze che sostengono i due contendenti. Quella che si gioca nell’Africa nord-occidentale è una partita complessa, con molti giocatori in campo: gli Usa, intenzionati a conservare il controllo indiretto ma ferreo dello stretto di Gibilterra, la Turchia alla ricerca di uno sbocco atlantico, la Francia intenzionata a non farsi scalzare da aree tradizionalmente parte del proprio estero vicino, la Russia, protagonista di una nuova politica africana.
Grande assente, ma non è una sorpresa, l’Europa. Eppure quanto potrebbe costare cara al Vecchio Continente questa distrazione lo dimostra quanto accaduto a Ceuta lo scorso maggio: in meno di 24 ore migliaia di immigrati si sono riversati nell’enclave spagnola, grazie al tacito consenso delle autorità marocchine. La colpa di Madrid? Aver consentito cure mediche sul suo territorio per Brahim Ghali, il leader del Fronte Polisario.