Non bastava il mezzo disastro di “Hammamet”, il film fatto uscire in occasione del ventennale della morte di Craxi: tragedia su di un uomo “totus politicus”, completamente priva di politica. Un po’ come se “Bohemian Rhapsody”, il film su Freddie Mercury, fosse stato privo di canzoni. Gianni Amelio, comunista calabrese che si è dichiarato omosessuale alla soglia dei settant’anni, con quel film aveva preferito l’indagine privata, pigiando il tasto della morbosità: non si giustificano altrimenti scene come quella in cui la figlia di “Monsieur le President” lo accompagna in albergo per fargli incontrare l’amante. Appunto, “Monsieur le President”: nessuno in quel film ha il suo nome autentico, Craxi è chiamato così dai miliziani palestinesi che ne sorvegliano la dimora, la figlia Stefania è ribattezzata (in tributo alla passione garibaldina del leader socialista) Anita, Vincenzo Balzamo diventa il Sartori (e invece di morire d’infarto si suicida) interpretato orrendamente dal sempre imbarazzante nipote della Cederna, ci si riferisce a De Mita come “quel democristiano irpino” e, giusto per buttarla ulteriormente in caciara, Renato Carpentieri appare in un ruolo che potrebbe come non potrebbe essere Cossiga oppure Berlusconi (il quale, solo riferimento alla cronaca reale, compare in televisione).
Non bastava, quel pastrocchio dedicato – ma anche no – alla peculiarissima sorte del politico che ha tenuto banco per anni di storia contemporanea italiana. La portentosa interpretazione di Pierfrancesco Favino aveva comunque riportato alla ribalta un regista, Amelio, che dopo “Le chiavi di casa” (del 2004, con Kim Rossi Stuart padre recalcitrante d’un ragazzino disabile) aveva diretto quattro film di cui non si sono accorti nemmeno i cineforum dell’Arci (“La stella che non c’è”, “Il primo uomo”, “L’intrepido” e “La tenerezza”): il regista ha allora pensato bene di battere il ferro finché è caldo, ed è tornato ad affrontare un tema politico-giudiziario: la tristissima vicenda di Aldo Braibanti, intellettuale dai molti tratti in comune col più celebre Pasolini (l’omosessualità e, purtroppo, persino la pederastia; la militanza nel PCI, il legame indissolubile con la madre, una qualche tendenza – più esasperata in Braibanti rispetto a PPP, che infatti a sua differenza trovò un uditorio – all’intellettualismo fine a se stesso, persino il fisico minuto e la voce stridula), processato per plagio dopo essere stato denunciato dalla famiglia di Giovanni (nel film, Ettore), un ragazzo allievo della “comune” di Braibanti; trasferitisi a Roma, i due avevano cominciato una relazione. Segue la vicenda un giornalista (immaginario) dell’Unità: Ennio Scribani, figura scimmiesca che non contribuisce minimamente né allo svolgimento del film, tantomeno alla battaglia di Braibanti e Giovanni/Ettore. I due attori principali sono Luigi Lo Cascio, con un sorprendente accento emiliano, ed Elio Germano (qualcuno ha visto, nella sua piattissima interpretazione del giornalista maleducato, qualcosa di Gian Maria Volonté: quanta fantasia).
Ci sono anche due camei: quello (parlante) della scrittrice Chiara Valerio (nota per lo più in quanto sodale di Michela Murgia nelle videointemerate su internet di costei), nel ruolo della poetessa che, a una festa romana, apostrofa Braibanti/Lo Cascio, “colpevole” di non averla aiutata a pubblicare una raccolta di scritti; l’altro (silente) di Emma Bonino, nei panni di se stessa, o meglio della Ribellione. Per molti secondi, un primissimo piano le inquadra gli occhi, che il controcampo mostra poi essere assorti nella visione d’un picchetto di studenti comunisti che solidarizzano col poeta processato.
Non bastava il culto di se stessa che la Bonino da decenni propala, grazie anche a molta stampa favorevole: doveva arrivare Amelio a farle il controcanto, a reggerle il bordone. Ahinoi, la politica è una cosa seria, ben diversa dalle semplificazioni a encefalogramma piatto d’un Gramellini qualsiasi: e Amelio fa uno strafalcione, e pure grave, e forse nemmeno in buona fede, quando ripete il luogo comune di Emma Bonino paladina di chissà quale lotta. Emma Bonino se n’è sempre fregata di qualsiasi causa, le sole di cui le sia importato qualcosa sono sempre state la visibilità e la convenienza. Gianni Amelio, che immediatamente prima di questo film ne ha realizzato uno, come già detto, sulla fine di Craxi, dovrebbe perciò sapere (anche se nel film sorvola allegramente sul tema) che questa comportò anche la fine del Partito Socialista; che era anche il solo partito di sinistra rimasto in Italia (il Partito Comunista, che già aveva perso l’identità con la puttanata berlingueriana dell’eurocomunismo, era appena diventato il Partito Democratico della Sinistra – il “pettirosso da combattimento” deriso da De André; stendiamo il proverbiale velo pietoso sulle successive involuzioni che hanno portato allo stato terminale del Partito Democratico), e che tale lacuna avrebbe potuto essere colmata dai Radicali (che allora, a pensarci oggi sembra incredibile, erano ancora tali); e che invece, Marco Pannella e proprio lei, la Bonino, preferirono “ciurlare nel manico”, come si dice dalle parti di Donna Emma, per poi flirtare con Berlusconi (ovviamente non perderanno tempo e tradiranno pure lui).
Emma Bonino non soltanto ha lasciato cadere nel vuoto l’ipotesi d’un nuovo centrosinistra, ha pure trasformato i radicali nel pastrocchio iperliberista (più berlusconiana di Berlusconi, più realista del re, come suo solito) di + Europa (circondandosi di personaggi del livello di Cappato e Della Vedova: una volta, i Radicali si accompagnavano con Enzo Tortora e Domenico Modugno…), e non perché ci credesse, ma perché un cosiddetto filantropo (innominabile responsabile di crack finanziari, nonché allievo di Karl Popper: difficile immaginare di peggio) gliene ha mostrata la convenienza: cosa c’entri una capitalista col comunismo lo può immaginare soltanto Amelio, ma del resto siamo in Italia, la patria del “banchiere rosso” Nerio Nesi, allora perché no, giriamo una scena con la Bonino che benedice un picchetto di studenti comunisti. E già che ci siamo facciamola passare per madrina d’una battaglia di libertà e tolleranza, nonostante i trascorsi da guerrafondaia e il laicismo (cosa diversa dalla laicità) spietato.
Non contento d’aver pagato tributo all’ennesimo santino sbilenco d’una sinistra italiana che nella sua disperata ricerca di riferimenti costruisce un “pantheon” sempre più grottesco (da compianti cialtroni come Basaglia, Berlinguer, Eco, Fo, Pertini giù, giù sino a inconsapevoli figurine come Patrick Zaki o cultori della violenza come Carola Rackete), per non essere da meno di Saviano e Pif che si appropriano rispettivamente delle storie di Falcone e Regeni e si fanno grossi agitandone gli spettri, Amelio irrompe in una vicenda delicatissima, fa a meno di narrarla (la sola figura della quale si porta in scena la tragedia è la mamma di Braibanti: soltanto alla fine gli sceneggiatori si sono accorti che quelle di Braibanti e Giovanni sono state due vite spezzate, dall’ingiustizia dei tribunali e dalla malignità della psichiatria), accende un cero all’altare di Santa Emma e, per bilanciare, calunnia Maurizio Ferrara.
Che non era proprio un signor Nessuno: ex partigiano (come lo stesso Braibanti), segretario di Togliatti, senatore per il PCI, presidente della Regione Lazio, padre dell’ormai molto più noto Giuliano, e direttore dell’Unità. Senza farne il nome (sia mai), Ferrara Sr. compare nel film in tale veste, interpretato dal friulano Giovanni Visentin (co-fondatore, con De Capitani e Salvatores, del teatro milanese dell’Elfo): sue sole preoccupazioni (nel film) sono intrattenere buoni rapporti con i “capoccia” del Soviet, e far percorrere alla linea editoriale i binari tracciati dal Partito. Ai tempi, il PCI aveva in sommo disdegno l’omosessualità (ne pagò le conseguenze il già citato Pasolini): perciò (nel film) l’Unità e il suo direttore abbandonano il compagno Braibanti nelle fauci degli inquisitori. Nulla di più falso: proprio Maurizio Ferrara difese, con coraggio (a differenza di oggi, gli omossessuali – quei pochi che, a differenza di Amelio, non aspettavano il momento giusto per dichiararsi tali – erano davvero dei reietti), il poeta piacentino.
Illegittima la beatificazione di Emma Bonino, altrettanto lo sfregio a Maurizio Ferrara. Dopo i pettegolezzi e le omissioni politiche sul Craxi tunisino, “Il signore delle formiche” (il riferimento è alla mirmecofilia di Braibanti, che studiava i formicai) è un altro film di Amelio sulla cronaca e sulla politica italiana, che pasticcia con la cronaca e fa confusione sulla politica. Di peggio ci sono solo le allucinazioni di Sorrentino e le banalizzazioni di Pif su Andreotti.