Dopo i partiti politici, toccherà ai sindacati fare i conti con la crisi della rappresentanza? Si direbbe di sì, a leggere la recente intervista di Maurizio Landini (“Il sindacato è morto se non cambia così grave crisi di rappresentanza”, “La Stampa, 8/11/2013). Secondo il segretario generale della Fiom le organizzazioni sindacali sono in grande difficoltà, intanto perché la maggior parte dei lavoratori non ha alcuna tessera sindacale in tasca (ed infatti, giusto per guardare in casa Cgil – aggiungiamo noi – più del cinquanta per cento degli iscritti sono pensionati). C’ è poi un vero e proprio vuoto, provocato – dice Landini – da “milioni di precari, giovani ma non solo, che non vedono nelle organizzazioni sindacali un soggetto che li possa rappresentare”. Esiste infine un problema di democrazia. Da qui l’invito a dare voce (e voto) ai lavoratori sui contratti e gli accordi che li riguardano, iniziando a recuperare sulla strada delle tutele, perdute da parte di chi lavora, e sul versante dell’autonomia politica: “…non si può – conclude il leader della Fiom – cambiare a seconda del governo e della maggioranza”.
La fotografia, offerta da Landini, è insieme impietosa e veritiera, confermando i tanti, troppi ritardi del mondo sindacale italiano, sia sui temi cruciali della rappresentanza, sia su quelli, più generali, della modernizzazione del Paese.
Da quando, ormai vent’anni fa, Aris Accornero aveva individuato con “la parabola del sindacato”, il senso dell’ascesa e del declino della cultura sociale nel nostro Paese, l’immagine del sindacato non sembra essere migliorata. Vuoi, perché alle profonde trasformazioni socio-economiche e politiche che hanno interessato il nostro Paese e, più in generale, il mondo, le organizzazioni sindacali non sembrano avere dato risposte originali. Vuoi perché, alla prova dei fatti, le stesse organizzazioni sindacali non sono state in grado di assumersi nuove funzioni e responsabilità, nel difficile e non ancora concluso processo di modernizzazione, reso necessario dalla crisi economica, dalle sfide della globalizzazione e dai nuovi scenari dell’integrazione europea.
L’impressione è che il sindacato sia come rimasto a metà del guado, con il rischio, a questo punto, di affogare, vista l’onda di piena della crisi e le intime, non risolte contraddizioni che lo segnano: lontano dagli eccessi del classismo, che ne hanno segnato l’ascesa negli Anni Sessanta-Settanta, ma non ancora pienamente interno alle problematiche di un’Italia che chiede chiare indicazioni sulla via del cambiamento degli assetti produttivi e normativi; formalmente “democratico”, ma ben restio a dare spazio e voce ai lavoratori; interno alle politiche “di concertazione”,
ma incapace di assumersi responsabilità reali, preferendo una “istituzionalizzazione spicciola”. Soprattutto in ritardo rispetto alla domanda partecipativa, snodo reale attraverso il quale passano i problemi evidenziati da Landini e non solo: quelli relativi al coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle scelte aziendali, ad un’adeguata politica salariale, ad una coerente “strategia di sistema”, ad un controllo sociale ed etico sui prodotti provenienti dai Paesi “emergenti” (dove è altissimo lo sfruttamento del lavoro e molto basse le tutele per i lavoratori).
L’idea “passiva” di coesione sociale, in cui le organizzazioni sindacali si sono riconosciute, tutta giocata su una serie di indicatori strutturali (disuguaglianza nella retribuzione, rischio di povertà, disoccupazione, abbandono scolastico, tutela della maternità, politiche abitative) pur necessari per risolvere le tante sperequazioni oggi esistenti, va integrata in un’idea “attiva” e dunque autenticamente inclusiva, che deve finalmente superare i limiti della conflittualità classista e gli eccessi del burocratismo sindacale, dando voce, voce reale, ai lavoratori e ai non garantiti, attraverso organiche forme di rappresentanza: nelle aziende, sul territorio, a livello politico. La vera sfida del sindacato si gioca lì. Pena il suo definitivo tramonto.