Il nostro è il tempo dell’oblio. Incontriamo sulle nostre strade segni che ci sembrano afoni perché non riusciamo ad ascoltarli. Sono patrimoni la cui eredità nessuno reclama. Stanno lì, ai margini dell’indifferenza, residui di epoche vicine e lontane che non hanno la forza di attrarre l’attenzione del passante ipnotizzato da un orizzonte indecifrabile. Con le pietre del passato, ci viene detto, non si costruisce nulla. I materiali che si preferisce impiegare sono altri: meno resistenti, più economici, maggiormente malleabili. Destinati a un deperimento precoce, tanto per non avere l’incombenza della custodia, del restauro, della manutenzione. E scolora così, nella dimenticanza, il debito tramandatoci da chi ha attraversato il tempo prima di noi.
Seppur s’eclissa la bellezza, resta il suo simulacro nell’abbandono cui ci dedichiamo recitando estetizzanti mantra che esaltano l’effimero come destino, tra le cui amorevoli braccia, si dice, inevitabilmente troveremo la quiete. Neppure l’arte o la musica resistono al vento della corruzione: persistono fino a che dura il lamento, ma non si riproducono nell’aridità di anime sfinite dall’estenuante opposizione alla depredazione di ciò che le rendeva ricche, feconde, seducenti. L’oblio sta vincendo la sua partita sulla memoria e trafuga qualsiasi cosa non abbia a durare lo spazio di un banale utilizzo. Economizzare il piacere o il peccato, la virtù o il vizio, la gioia o il dolore è indifferente. Ricordare è verbo da espungere dal vocabolario della modernità. Perché insopportabilmente osceno di fronte all’infinito nulla cui deve ridursi la vita affinché non abbia obblighi verso la morte e dunque nei confronti della posterità. L’attimo è l’interruzione continua di un sentiero. Come un verso che non si ritrova con il successivo. Uccidere la memoria equivale a svaligiare il futuro.
La sua essenza, infatti, non è tanto quella di rinnovare il passato celebrandolo nel presente, ma volgersi all’avvenire per fornire i frutti delle esperienze, delle storie, delle passioni alle generazioni future. È «il ventre dell’anima», diceva Sant’Agostino. Mentre San Tommaso la vedeva come «il tesoro e il posto di conservazione della specie». Non è, dunque, come si vorrebbe oggi, il retrobottega di un trovarobe di ricordi, ma è energia dinamica, vitale che accompagna l’esistenza e ne amplia la capacità di comprensione davanti al nuovo. Tanto che Bergson osservava che la memoria «non consiste nella regressione dal presente al passato, ma al contrario nel progresso dal passato al presente. È nel passato che noi ci situiamo di colpo». Sulla trama dei ricordi si può innestare la costruzione di un destino; senza, ci si nega la possibilità di penetrare il tempo riducendolo a strumento del nostro spirito e della nostra intelligenza. La decadenza nella quale siamo immersi è tributaria anche del tramonto della memoria come elemento distintivo di comunità caratterizzate dall’assenza del ricordo del loro cammino perché scientificamente cancellato da chi aveva immaginato il «nuovo inizio» della storia dalla proclamazione della morte di Dio.
La memoria ha cominciato a svanire quando le ombre del sacro si sono ritratte alla nostra conoscenza e la rivelazione della povertà umana non ha armato le coscienze di fronte all’esposizione della sua nudità, ma ha convinto i maestri del pensiero ad ammantarla di orpelli fatui atti a dimostrare che perfino senza un passato, e dunque, senza il riconoscimento del Principio, poteva esserci un avvenire. Ecco i risultati dell’inveramento della menzogna nel popolo degli immemori. Le tracce del passato si sono cancellate, la didattica della Ragione non prevede l’immersione nella liquidità delle origini, il sogno del futuro è abrogato dalle consuetudini che sistemano nelle menti l’orrore della memoria soltanto come etereo simbolo di scarnificati predecessori destinati a essere dimenticati in pochi decenni.
La cultura del sepolcro, insomma, è l’alibi per sostenere la fine della storia, e quindi della continuità dello spirito. Come se bastasse un fiore per chiudere la bocca alla voce dei millenni. Perciò, trionfante l’oblio, quale religione della modernità, del tutto inconsapevolmente consumiamo emozioni, passioni, relazioni, sentimenti come insignificanti merci i cui avanzi sono destinati all’immondezzaio. Le discariche sono le metafore di quest’epoca; i rifiuti come produzione di risorse riassumono l’allegra disfatta di un’umanità che neppure per un istante si sente dolente, usata, macellata perfino.