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Il triste Natale di Betlemme. Non c’è pace tra gli olivi…

di Redazione
27 Dicembre 2018
in Rassegna Stampa
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Il triste Natale di Betlemme. Non c’è pace tra gli olivi…
       

Le bande dei boy-scout venute da tutta la Palestina, scendono dal suq uguale alla quinta di un presepe: case a cupola, campanili e minareti. Attraversano la piazza della Mangiatoia e davanti alla chiesa della Natività, svoltano a sinistra, marciando verso altri vicoli del cuore di Betlemme. È così ogni Natale. Trombe, tamburi e cornamuse ereditate dalla presenza britannica in Palestina tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Ci sono molti pellegrini e turisti stranieri: da anni non erano così tanti, dicono in città. L’atmosfera è gioiosa.

Gioiosamente contenuta: c’è posto per chi è venuto a pregare in raccoglimento nel luogo dove è nato il Cristo; e per chi si accontenta di tornare a casa con un souvenir di legno d’ulivo della Terra Santa e un selfie nella Natività magnificamente restaurata dagli italiani. «Qui a Betlemme cristiani e musulmani stanno celebrando il Natale insieme: è l’unico caso al mondo», fa notare Mustafa Barghouti, ex ministro dell’Autorità Palestinese. È vero. Dall’altra parte della piazza della Mangiatoia, di fronte alla Natività, c’è la moschea di Omar. Le campane e il richiamo del muezzin si alternano in armonia. Anche i pochi cristiani di Gaza sono stati autorizzati da Hamas, il movimento islamico palestinese, a fare l’albero di Natale. Non è sempre stato così. Nel 1922 i cristiani erano il 10,8% della popolazione araba; nel 1946, prima della fondazione d’Israele, il 9,7; nel 2015 erano il 2,5% in Cisgiordania e l’1 nella striscia di Gaza. Il loro esodo è stato causato in uguale misura dall’occupazione israeliana e dal crescente integralismo islamico palestinese.
Nell’aria frizzante dell’inverno, nell’attesa dell’avvento c’è tutto perché Betlemme viva nella gioia. Per entrare nella chiesa della Natività dalla piccola porta che impone a chi la attraversa di chinarsi davanti al divino, credenti di ogni continente attendono con pazienza. Perfino i commercianti sono «abbastanza soddisfatti».

Ma è un altro triste Natale, questo a Betlemme. Prima di celebrare la messa di mezzanotte, l’Amministratore apostolico del Patriarcato latino, Pierbattista Pizzaballa, ricorda che «noi cristiani celebriamo la festa di gioia e speranza. Ma sappiamo che in questa terra sono parole lontane dalla realtà».
Mai come ora israeliani e palestinesi sono stati così lontani. Perfino durante la seconda Intifada, 15 anni fa, un canale di comunicazione politica era sempre aperto. Proporzionale all’inadeguatezza sempre più evidente dell’Autorità palestinese di Ramallah, in Cisgiordania è aumentata la presenza di Hamas: ci sono stati attacchi e gli israeliani hanno risposto con la consueta durezza.
L’occupazione continua da 51 anni e un’altra generazione di palestinesi – l’ennesima – è cresciuta abbastanza per riprendere la lotta. Le opportunità della politica e della diplomazia sono a zero e una volta di più, le opzioni sono due: emigrare o rispondere al richiamo di Hamas a una guerra velleitaria e senza fine.
Elezione dopo elezione, Israele sta subendo una pericolosa mutazione tribale: pericolosa per una pace con i palestinesi ma anche per la tenuta democratica del Paese. Alla periferia di Gerusalemme, sulla strada per Betlemme, ci sono due grandi manifesti dei «Commanders for Israel’s Security»: è il movimento a favore di un compromesso con i palestinesi creato da ex comandanti in capo, direttori del Mossad e di tutti i servizi d’intelligence. Per la sicurezza d’Israele, chiedono a Netanyahu di «divorziare» dai palestinesi.
In sostanza chiedono la soluzione dei due stati per i due popoli nata dagli accordi di Oslo, e ora moribonda. Ma nel clima politico di oggi, dire «stato palestinese» è come un tradimento, un’ammissione di antisemitismo. Il discorso politico è dominato dai coloni nei Territori occupati e dal suo partito razzista di riferimento, ora al governo, Habayit Hayehudi. Questo e altri partiti chiedono di invadere ancora Gaza e punire più severamente i palestinesi dopo ogni attentato. «C’è chi pensa che il terrorismo finirà se solo usiamo più forza», diceva prima di Natale il generale Gadi Eisenkot, il capo di stato maggiore uscente delle Forze armate.

Per lui serve una politica giudiziosa. È molto israeliano che le donne e gli uomini garanti della sicurezza nazionale chiedano di non bombardare l’Iran, di evitare un’altra inutile guerra a Gaza, di cercare una soluzione politica con i palestinesi. Diversamente dagli altri paesi del Medio Oriente, qui i generali sono pronti a combattere ma prima chiedono di tentare soluzioni politiche. È per questo che i coloni e i loro partiti estremisti attaccano loro, il sistema giudiziario e la stampa che stanno difendendo l’anima d’Israele.

Con una similitudine tragica, quando attaccano i villaggi palestinesi, i coloni disegnano la Stella di David per affermare il loro potere. Come una volta facevano nazisti sulle case e i negozi degli ebrei europei. Secondo Michael Sfard, un avvocato israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, «stiamo assistendo al sorgere di un Ku Klux Klan ebraico. Come in America, beve alla fonte del fanatismo religioso. Anche questo razzismo è fondato sulla violenza contro l’equivalente dei neri: i palestinesi».


Ad ogni Natale, il presidente dell’Autorità palestinese partecipa alla messa di mezzanotte a Betlemme. Prima di entrare nella chiesa della Natività, Abu Mazen ha chiesto all’Europa di salvare la soluzione dei due stati e lo stato palestinese: teme che il cosi detto piano di pace promesso da Donald Trump, ancora misterioso, sia sbilanciato a favore d’Israele. È difficile che nel panorama internazionale ci sia qualcosa di più disperato che chiedere l’aiuto della Ue: un’entità politica di poco conto sul piano internazionale. Dopo aver respinto piani di pace promettenti (Camp David 2000, Olmert 2008, Kerry 2016), offuscata da un massimalismo corrosivo, la dirigenza palestinese è in uno stato comatoso.
Alla vigilia di Natale il premier israeliano Bibi Netanyahu ha annunciato elezioni anticipate ad aprile. Una delle principali ragioni – dopo la convinzione di rivincerle – è ritardare la presentazione del piano americano: come Abu Mazen, teme che Trump chieda sacrifici anche a Israele. Dopo decenni di violenze e paci fallite che avrebbero sfiancato qualsiasi altro popolo, israeliani e palestinesi restano invece ostinatamente attaccati alle loro pretese.

Sotto le luminarie di Natale e il cielo intensamente blu, solcato dal passaggio di nuvole veloci (lo stesso cielo per israeliani e palestinesi) gli scout gonfiano di aria le cornamuse. Trombe e tamburi provano le sonorità. Nel caos gioioso che precede la parata, il sindaco di Betlemme Azad Dhomun cerca di farsi sentire. Il prossimo Natale, grida, sarà celebrato in una Palestina indipendente. Lo dicevano ance i suoi predecessori. Neanche quest’anno c’è qualcuno che gli creda ma è stato bello sentirlo: dopo tutto è Natale.

Ugo Tramballi, Sole 24 Ore, dicembre 2018

Tags: guerreIsraelePalestina
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