Ogni anno in Africa il deserto avanza di due chilometri, inghiottendo più di due milioni di ettari verdi. Un’avanzata apparentemente implacabile che incalza oltre 500 milioni di donne, uomini, bimbi che vivono (o, meglio, sopravvivono) lungo la fascia sub sahariana. Le prospettive, secondo l’ONU, sono drammatiche: entro il 2025 due terzi delle terre coltivabili africane sarebbero a rischio desertificazione. Un disastro di proporzioni bibliche con conseguenze immediate — siccità, carestie, spopolamento — e un corollario di minacce esiziali come rinnovate derive fondamentaliste, altri conflitti tribali, illegalità diffusa e, dulcis in fundo, migrazioni di massa verso l’Europa.
Da qui le domande. Il Continente nero, o almeno buona parte di esso, è perduto per sempre e ogni speranza è morta? Le invasioni di folle di disperati, i cosiddetti “migranti climatici”, che si accalcano sui barconi dei negrieri sono un dato ineluttabile, una valanga inevitabile o magari — come i vetero terzomondisti sostengono — una meritata punizione per il passato coloniale? Ed invece, è possibile fermare l’avanzata delle sabbie, salvare o persino recuperare terreni e offrire un futuro degno a chi laggiù è nato e vorrebbe restarci? In quest’ultima ipotesi, la più affascinante e di certo la più corretta, tanti africani — governanti, scienziati ma anche molti operatori e sempre più contadini e pastori — sperano, credono e investono.

Non si tratta dell’ennesima fiaba “buonista” ma di una realtà operante e fattiva. Ci riferiamo alla “Great Green Wall”, la grande muraglia verde, un’impresa colossale (quanto poco conosciuta) che si stende dall’Atlantico all’Oceano Indiano attraverso undici nazioni. Tutto ebbe inizio nel 2002, quando l’allora presidente nigeriano Olusegun Obasanjo prese atto della catastrofe ambientale incombente e attualizzò un progetto tratteggiato ai tempi della presenza europea.
Facciamo un passo all’indietro. Nel 1952 Richard “Saint Barbe” Baker, uno padri fondatori dell’ambientalismo britannico, allarmato dai primi studi sulla desertificazione propose la creazione di una cintura verde transafricana larga 50 chilometri. A Londra e Parigi se ne discusse ma il processo di decolonizzazione era ormai avviato e l’idea venne accantonata; Baker, per tutti ormai “The Men of Trees”, non demorse e continuò a sollecitare i nuovi governanti. Senza successo. Dopo aver lottato contro la deforestazione in oltre 30 nazioni la morte lo colse nel 1982, ma il suo messaggio fu raccolto dall’International Tree Foundation (associazione tutt’oggi impegnata nella difesa delle foreste del globo) e, infine, arrivò sul tavolo di Obasanjo che lo rilanciò con forza proponendo ai governi di Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Niger, Chad, Sudan, Eritrea, Etiopia, Gibuti e agli altri patners dell’Unione Africana un’agenzia panafricana per la costruzione della Great Green Wall.
Cinque anni più tardi il progetto venne finalmente approvato con qualche modifica rispetto al piano originario di Baker — 15 chilometri invece di 50 — e un’attenzione critica alla parallela esperienza cinese impostata per fermare l’espansione del deserto del Gobi, un frutto avvelenato delle scellerate politiche ambientali volute da Mao. Il massiccio piano di rimboschimento di Pechino — iniziato nel 2003 con l’obiettivo di coprire d’alberi 4500 chilometri entro il 2050 — ha infatti privilegiato la quantità sulla qualità, mostrando nel tempo ripetute falle in tema di biodiversità e sostenibilità. Un errore che gli africani hanno voluto evitare optando a partire dal 2012 per un intervento “dolce”, rispettoso della flora autoctona e in linea con i bisogni delle popolazioni. Dunque non solo nuovi alberi – piantati ad una distanza di 6-8 metri — ma anche una varietà vegetale più complessa e adatta ai climi desertici e attenzione per l’indispensabile ripopolamento faunistico (insettti e uccelli, ma poi anche gazzelle e altri animali più “ingombranti”).

Al ritmo di 6000 ettari all’anno e 12 milioni di alberi rimpiantati, il Senegal è il punto avanzato del progetto. L’Agence nationale de la Grande muraille è operativa dal 2008 ed ha come obiettivo rinverdire 8175 chilometri quadrati nelle regioni settentrionali del Paese. I risultati sono promettenti come sottolinea il presidente dell’Agence Chérif Ndianor: «ad oggi il tasso di riuscita dei rimboschimenti è attorno al 80 per cento, 40mila ettari sono stati pienamente riqualificati e altri 13mila sono in fase di tutela, una chiusura provvisoria al pascolo e alle coltivazioni per permettere all’ecosistema di recuperare la sua “memoria”. Accanto alle operazioni di rimboschimento abbiamo creato nei villaggi dei “giardini polivalenti” gestiti per lo più dalle donne locali. Un modo per tornare a produrre frutta, legumi e pepe, migliorando così l’alimentazione, la salute e l’economia delle popolazioni. L’impatto sociale è infatti determinante — continua Ndianor —, ispirati dal successo dell’argan marocchino stiamo promuovendo la coltivazione dell’”acacia Senegal” e della “balanites aegyptica”, i datteri del deserto, due piante dal grande potenziale economico».
Uno sforzo importante a cui il governo di Dakar destina ogni anno 1,3 milioni di euro che si aggiungono ai 3 milioni di dollari donati dalla Banca Mondiale. Soldi ben spesi anche grazie al rigore del nuovo presidente senegalese Macky Sall, personaggio ben diverso dai vari presidenti cleptomani che hanno saccheggiato senza vergogna larga parte dell’Africa post coloniale…
Fortunamente il modello senegalese non è più un caso isolato. Lungo tutto la muraglia verde — nonostante enormi problemi politici, militari, culturali — i lavori vanno avanti e i primi risultati iniziano a vedersi. In Etiopia 15 milioni di ettari sono stati riqualificati, in Nigeria 5, in Burkina Faso 3, nel Niger 5 (consentendo così un surplus di 500mila tonnellate di grano all’anno). E sempre in Etiopia lo scorso 29 luglio il premier Abiy Ahmed Ali, premio Nobel per la pace 2019, ha strappato un record mondiale: nel solco del programma “Green Legacy”, sinergico al progetto-madre, in un sola giornata tutta la nazione si è mobilitata per piantare 350 milioni d’alberi. Piccoli passi, certo ma anche un segnale che la catastrofe africana non è un destino segnato. La partita per il futuro è apertissima, basta che gli africani ci credano.